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L’Argentina si affida a “El Loco” per uscire dalla crisi

È stato eletto promettendo di tagliare le spese dello Stato a colpi di motosega. Javier Milei, presidente dell’Argentina, ha già iniziato a mettere in atto il suo piano lacrime e sangue per riportare in carreggiata il paese: se da un lato può vantare il ritorno al surplus fiscale e l’azzeramento del disavanzo pubblico, l’inquilino della Casa Rosada deve fare anche i conti con un’inflazione al 200% e un tasso di povertà che coinvolge più di metà della popolazione

Ci fu un tempo, più o meno all’inizio del XX secolo, in cui l’Argentina era uno dei paesi più ricchi al mondo: il suo Pil, all’epoca, era paragonabile a quello di Francia e Germania. Centoventi anni dopo, il paese affonda in un pantano di guai. Fallita per nove volte (più di qualsiasi altro Stato al mondo), l’Argentina convive attualmente con un’inflazione vertiginosa, che viaggia attorno al 200%, e ha più di metà della propria popolazione al di sotto della soglia di povertà. Il paese non ha accesso al credito, situazione alla quale prova a ovviare chiedendo prestiti al Fondo monetario internazionale. Gli unici introiti in dollari avvengono attraverso le esportazioni, prevalentemente di prodotti agricoli. L’assenza di finanziamenti è dovuta alla mancanza di fiducia, in una spirale che non fa che avvitarsi. Buenos Aires, soprattutto a partire dal traumatico default del 2001, sembra aver smarrito totalmente la bussola: incapace di trovare una ricetta economica che funzioni e senza una classe politica in grado di sbrogliare la matassa dei suoi tanti problemi.


Inizia l’era di El Loco

Non deve quindi stupire più di tanto se, in un clima di profonda sfiducia verso i personaggi politici mainstream, gli argentini abbiano scelto come proprio presidente un outsider come Javier Milei (in foto). Anarco-liberista, 53 anni, il nuovo inquilino della Casa Rosada è un personaggio che, visto dall’esterno, appare assai bizzarro, per non dire folle. In molti ricorderanno la sua immagine tra la moltitudine di sostenitori, in campagna elettorale, mentre brandiva una motosega a rappresentare i tagli alla spesa pubblica, al numero dei ministeri e in generale ai costi della politica. Del resto il suo soprannome è El Loco, il pazzo, che è anche il titolo dell’unica biografia esistente su di lui. Nel libro, Milei (intervistato dall’autore, il giornalista Juan Luis Gonzales), racconta di avere “visto” tre volte la resurrezione di Cristo, dice di poter comunicare grazie a una medium e alla sorella telepatica con il suo “figlio a quattro zampe”, ossia Conan, mastino inglese la cui morte nel 2017 nascose per anni, e che sostiene di avere fatto clonare negli Stati Uniti. Proprio i colloqui con il defunto cane, a suo dire, ispirerebbero le sue decisioni politiche. Assicura anche di poter parlare con Dio, che chiama “il numero Uno” e che gli avrebbe affidato la “missione” di diventare presidente.


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Dagli slogan alla realtà

Ora che presidente lo è diventato sul serio, Milei è chiamato a dare concretezza al suo programma shock per salvare il paese, caratterizzato da posizioni estreme tra cui spiccano la dollarizzazione dell’economia e la chiusura della banca centrale argentina. Quanto delle ricette radicali del neopresidente resteranno solo slogan populisti, e quanto (e a quali costi) saranno applicabili nella realtà, lo diranno i prossimi mesi. Secondo Antonella Mori, professoressa dell’università Bocconi e responsabile del programma America Latina dell’Ispi, tra tutti i nodi da sbrogliare, quello più urgente riguarda l’inflazione. “Il paese – spiega la professoressa a Società e Rischio – ha avuto nei periodi recenti una dinamica inflattiva che il governo stimava intorno al 10-15%, ma che secondo studi indipendenti era tra il 20 e il 25%. Oggi l’inflazione però è sfuggita di mano, è diventata qualcosa di totalmente destabilizzante, siamo intorno al 200% annuo. Questo è il problema principale per Buenos Aires”.


A suon di dollari

In Argentina l’utilizzo del dollaro americano passa attraverso un tasso di cambio ufficiale che è fortemente sopravvalutato a vantaggio della moneta locale, il peso, e che non è realistico. “Chi oggi in Argentina vuole dei dollari li deve pagare molto di più rispetto al cambio ufficiale”, osserva Mori. Bisogna cioè ricorrere al cosiddetto dollaro blu, cioè il cambio parallelo, più realistico per la valuta americana. “In Argentina – prosegue la professoressa – l’inflazione ha un’origine monetaria, poiché viene stampata sempre più moneta per finanziare i disavanzi di bilancio”. Ecco perché tra le primissime misure messe in atto, già a dicembre, Milei ha disposto una maxi svalutazione del peso, pari al 54%. Una svalutazione che è servita ad azzerare il disavanzo del bilancio pubblico. Secondo il suo programma elettorale, i prossimi passi dovrebbero essere quelli della chiusura della banca centrale e della completa dollarizzazione. Ma è una prospettiva realmente praticabile? No, secondo Mori, soprattutto per un fattore politico. “Questo non avverrà perché i principali alleati di governo di Milei sono contrari”, osserva.


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I numeri per governare

Un aspetto da non tralasciare, riguarda la tenuta della maggioranza che sostiene il presidente. Milei fa parte di un piccolo partito di estrema destra, La libertad avanza, che non ha i numeri sufficienti per governare da solo. Nonostante Milei sia stato eletto con il 56% dei voti al secondo turno delle elezioni presidenziali, i seggi alla Camera e al Senato sono stati assegnati secondo i risultati del primo turno e il suo partito è rappresentato solo da 38 deputati su 257 alla Camera e da sette senatori su 72 al Senato. Per questo, al ballottaggio delle presidenziali Milei ha dovuto stringere un’alleanza con la candidata arrivata terza al primo turno, la centrista Patricia Bullrich (attuale ministra per la Sicurezza), e con il partito dell’ex presidente di destra, Mauricio Macri. “Questi accordi politici – riflette Mori – hanno reso un po’ meno estremiste le posizioni di Milei presso gli elettori più moderati”. Se molti dei voti più convinti andati a El Loco sono arrivati dai giovani che hanno deciso di votare per il cambiamento, “molti altri voti provengono da un elettorato più moderato, di centrodestra”. Qualcuno sarà probabilmente arrivato anche da chi in passato votava peronista, espressione che nella politica argentina abbraccia una galassia molto ampia (in grado di comprendere tanto la destra quanto la sinistra) e che ha visto tra i propri esponenti un altro ex presidente, Carlos Menem, a cui Milei si richiama.

Lo stop al decreto Omnibus

Un primo bagno di realtà il neopresidente lo ha avuto con la bocciatura della cosiddetta legge Omnibus, un corposo provvedimento composto da 664 articoli (anche se ne ha persi la metà nei vari dibattiti in aula) che abrogano o modificano leggi in materia economica, fiscale, sociale e amministrativa molto diverse fra loro, ma che rientrano nell’ambizioso programma di Milei: misure di deregolamentazione, riforme nel sistema tributario, nella gestione del debito pubblico, in settori chiave (come pesca, energia, trasporti) un’importante riforma elettorale, la privatizzazione di quasi una quarantina di aziende statali e l’aumento delle pene per chi organizza manifestazioni non autorizzate.
Il mega-pacchetto su privatizzazioni e deregulation era stato affossato lo scorso gennaio dalla Camera dei deputati, ma il Governo starebbe studiando un modo per ripresentare il maxi provvedimento in Parlamento, probabilmente segmentandolo in varie leggi e decreti di necessità e urgenza per alcune questioni.


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L’aumento della povertà

La ricetta anarco-capitalista di Milei passa ovviamente anche da tagli senza precedenti agli occupati nel settore pubblico: e ne hanno fatto le spese quasi 15mila lavoratori statali che sono stati licenziati. Più in generale, sono stati sospesi quasi tutti i lavori pubblici (è stato bloccato l’86% dei cantieri), dimezzato il personale nei ministeri, liberalizzati i contratti d’affitto, tagliati i fondi alle province. Il presidente lo ha detto esplicitamente: “recuperare l’enorme debito accumulato da decenni significherà lacrime e sangue e richiederà tempo prima di vedere i risultati”. Al momento questa ricetta truculenta ha portato Buenos Aires ad avere, per la prima volta da decenni, un surplus fiscale (dati Indec, 20 febbraio 2024).
Ma il prezzo da pagare è davvero alto. Secondo uno studio pubblicato lo scorso febbraio dall’Osservatorio del Debito Sociale dell’Università Cattolica (Observatorio de la Deuda Social Argentina, Uca) il tasso di povertà coinvolge ormai il 57,4% della popolazione (pari a circa 27 milioni di persone): si tratta del livello più alto raggiunto negli ultimi 20 anni. Non solo: il livello d’indigenza (quando il reddito di cui si dispone è troppo basso per consentire la soddisfazione di bisogni fondamentali), che nell’ultimo trimestre del 2023 era al 9,6%, è schizzato oltre il 14%. In altre parole, tra novembre 2023 e gennaio 2024 oltre 3,6 milioni di argentini si sono trovati a fare i conti con una situazione di povertà assoluta.


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La tenuta sociale

“Milei – spiega la professoressa Mori – ha chiuso molti pezzi della macchina dello Stato, tra cui l’agenzia di stampa nazionale. Sta facendo dei tagli enormi, ma è difficile capire quali saranno gli effetti sociali sul lungo termine. Ha reintrodotto delle tasse che erano state tolte dal governo precedente e parallelamente ne ha introdotte altre sulle esportazioni, però senza dubbio ha lavorato di più sul taglio delle spese. È una scelta. Non saprei dire quanto sia sostenibile dal punto di vista sociale, con una povertà già alta e tagli drastici all’occupazione pubblica e senza un settore privato in grado di assorbirli”.
Ad ogni modo, insiste Mori, “la strada di portare a zero il disavanzo di bilancio è una cosa che era necessario fare. Forse i tempi sono stati stretti, però ricordo che Macri fallì proprio su questo fronte e fu criticato proprio perché troppo gradualista. È molto difficile sbilanciarsi. Personalmente avrei preferito vedere un po’ più di aumenti di tassazione sulla parte di Argentina ricca, che comunque c’è, piuttosto che osservare solo tantissimi tagli. Alcuni dei quali – aggiunge – andavano comunque fatti, perché il settore pubblico argentino è gigante e inefficiente”.
La grande sfida è quella di attrarre investimenti privati. Una scommessa che aveva voluto fare anche Macri, perdendola. “Fino a che non sarà liberalizzato il tasso di cambio gli investitori non arriveranno perché mettere i propri soldi in Argentina – conclude Mori – è troppo rischioso”.

Elogi e cautela dal Fondo monetario internazionale

 
Le riforme messe in atto dal presidente argentino Javier Milei per ora hanno incassato il plauso del Fondo monetario internazionale per “i progressi impressionanti” compiuti dal suo governo per tenere in ordine i conti pubblici. Julie Kozack, direttrice delle comunicazioni dell’Fmi ha elogiato “l’ambizioso piano di stabilizzazione macroeconomica”, incentrato su un “forte ancoraggio fiscale” che elimini qualsiasi finanziamento da parte della banca centrale, e politiche rivolte a ridurre l’inflazione e ricostruire le riserve. “Un percorso non facile”, ha riconosciuto Kozack, “che richiede una forte attuazione politica”. A fronte di queste parole, tuttavia, è arrivata anche una stoccata proprio in relazione al prezzo sociale di queste riforme. Secondo Rodrigo Valdés, direttore del Dipartimento dell’emisfero occidentale dell’Fmi, “il percorso verso la stabilizzazione non è mai facile, richiede una forte attuazione delle politiche in generale. Per questo”, ha ribadito, “è molto importante continuare a migliorare la qualità dell’aggiustamento fiscale. Qualità, non quantità”, ha tenuto a precisare. “Dobbiamo continuare ad adattarci durante tutta la transizione e i controlli sui cambi devono essere calibrati con molta attenzione. Inoltre, riteniamo che sia molto importante mantenere gli sforzi per sostenere i settori più vulnerabili della popolazione e garantire così che il peso più importante dell’aggiustamento non ricada in modo sproporzionato sulle famiglie della classe operaia”.