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L’intricata strada dello sviluppo

Dalla forte dipendenza dal contesto internazionale alle tensioni politiche, dalla lotta alla fame alle conseguenze del cambiamento climatico, ecco i principali nodi ancora aperti in un continente in cui si prevede una vera e propria esplosione demografica, e dove entro la metà di questo secolo abiterà un quarto della popolazione mondiale

In Italia parlare di demografia è andare a toccare un nervo scoperto che agita fantasmi di un lento declino, per l’Africa è un elemento essenziale per fotografare il peso prospettico del continente. Attualmente ospita oltre 1,3 miliardi, il 17% della popolazione mondiale, ma si stima che a metà del secolo ci sarà un quarto della popolazione della Terra, quasi due miliardi e mezzo di persone. Particolarmente significativo è il caso della Nigeria, che entro la metà del secolo, potrebbe diventare il terzo paese più popoloso della Terra, con oltre 400 milioni di abitanti. Insomma, il trend è evidente. Ciò che non è ancora chiaro è se, e come, questa dinamica si trasformerà in un potente motore di sviluppo.
Secondo Valerio Bini, professore di geografia dello sviluppo presso l’Università degli Studi di Milano e autore del libro La cooperazione allo sviluppo in Africa (ed. Mimesis), “negli ultimi anni dopo una fase in cui diversi indicatori segnalavano elementi positivi c’è stato un rallentamento dovuto a una serie di fattori, in primis il fatto che quel periodo di crescita era guidato soprattutto dall’export verso i paesi emergenti”. Rispetto a 30 anni fa ci sono stati dei miglioramenti osservabili solo in termini percentuali, “mentre in termini assoluti il numero di persone che vivono sotto la soglia della povertà nell’Africa sub-sahariana è salito dai 270 milioni del 1990 ai 378 milioni del 2015”.


 

Una forte dipendenza dal contesto internazionale

Uno dei fattori che rendono instabile lo sviluppo del continente è la dipendenza dal contesto internazionale. “Il periodo di miglioramento osservato intorno al 2011 era molto legato al ruolo di Cina, India e Brasile, che con la loro crescita hanno alimentato il mercato delle materie prime”, ricorda Bini.
Dopo di che un secondo fattore significativo che zavorra lo sviluppo ha a che vedere con le questioni politiche interne. Archiviata una fase, durata decenni, di partiti unici e guerre civili, è iniziato, intorno alla seconda metà degli anni ‘90, un periodo di grande ottimismo che negli anni 2000 ha visto una forte spinta verso la democratizzazione. “Questa spinta si è poi arenata – spiega il professore – o addirittura sono riesplosi una serie di conflitti che non si pensava potessero riaprirsi”. Un esempio è il Burkina Faso, paese che prima del riaprirsi della tensione aveva un governo autoritario ma stabile, e senza particolari violenze. “L’instabilità politica – osserva – ha portato un immediato impatto sull’educazione, con la chiusura di un quarto delle scuole in seguito all’escalation militare: significa un milione di persone che non possono accedere all’istruzione”.


 

L’insicurezza alimentare

Anche sul fronte della lotta alla fame, prosegue Bini, negli anni ci sono stati dei miglioramenti, ma la situazione resta preoccupante. “Nell’Africa sub-sahariana – spiega – nel 2000 la malnutrizione riguardava il 26% della popolazione. Il dato è poi sceso fino al 17% circa, per poi risalire all’odierno 22%”. Ma tradotto in termini assoluti, e con una popolazione in grande crescita, il dato è passato dai 170 milioni di individui nel 2000, agli attuali 262 milioni.
“Sulla lotta alla fame in passato sono stati ottenuti dei risultati discreti. Ad esempio l’Africa occidentale dagli anni ‘90 agli anni 2000 ha visto una riduzione piuttosto importante. Questo perché il sistema agroalimentare mondiale aveva messo sul mercato globale tanto cibo e a basso prezzo, cosa che aveva permesso a molti stati di garantirsi una sicurezza alimentare”. Questo schema è entrato in crisi quando i prezzi si sono alzati, a partire dal 2007. Bini cita il Ghana, un paese che aveva ottenuto risultati molto buoni su questo fronte, ma in un’ottica di forte dipendenza dal mercato internazionale del cibo è andato in difficoltà. “La popolazione – sottolinea Bini – in questo senso diventa sempre più vulnerabile allo shock dei prezzi. La stessa cosa sta accadendo in maniera molto evidente adesso, con la guerra in Ucraina. La leva del prezzo del grano è particolarmente forte perché ci sono paesi particolarmente esposti dal punto di vista delle politiche alimentari”.
Un punto che Bini tiene a sottolineare per sgombrare il campo da analisi troppo semplicistiche riguarda il fatto che “noi tendiamo ad associare l’aumento della popolazione che soffre la fame a questioni di disponibilità effettiva di cibo per tutti. Ma il problema più ampio riguarda il fatto che sono stati creati dei sistemi di produzione agroalimentare fortemente dipendenti dalle oscillazioni del mercato internazionale, e ogni volta che il prezzo sale, mandano in crisi decine di paesi”. In altre parole: il cibo ci sarebbe anche, ma non tutte le persone possono permetterselo.


Nelle dinamiche migratorie uno degli aspetti più importanti riguarda la rete di conoscenze


Migrazione, un fenomeno complesso

La fame è uno dei fattori più citati nei discorsi legati alla migrazione. Ma anche su questo punto Bini invita a non cadere in semplicismi e a guardare il fenomeno nella sua complessità. “A emigrare – afferma – non sono le persone che non hanno accesso al cibo. Chi si trova in povertà estrema non può permettersi di fare questo tipo di spostamenti”.
Inoltre, quando si parla di aiuto allo sviluppo e di migrazione, “in molti cadono nella logica cinica del ‘aiutiamoli a casa loro’. Ma nessuno – prosegue Bini – ha dimostrato l’esistenza di un nesso per cui se si promuove lo sviluppo le persone non emigrano più. Anzi, molti indicatori dicono il contrario”.
Secondo Bini, nelle dinamiche migratorie uno degli aspetti più importanti riguarda la rete di conoscenze: “spesso chi viene in Europa lo fa perché ha un parente o un amico che è già venuto, sa dove andare. Questa dimensione è fondamentale, e invece è poco considerata nelle analisi in cui si tende a vedere l’emigrazione solo come un fattore di fame o climatico. Invece quando si analizzano questi fenomeni è molto più importante andare a vedere come ragiona il migrante, qual è la sua strategia”.




Come impattano i cambiamenti climatici

Allo stesso modo, osserva Bini “si associa in modo un po’ troppo grossolano il cambiamento climatico con le migrazioni, come se ci fosse una conseguenza diretta: meno piogge, più caldo, più deserto, allora le persone scappano e vengono in Italia. Non funziona così. Ciò non significa tuttavia che il cambiamento climatico non stia già avendo un impatto forte, in alcuni casi drammatico, sulle popolazioni locali”. Alcune zone vivono situazioni più estreme di altre, e in futuro un problema crescente riguarderà le cosiddette isole di calore, soprattutto nelle aree urbane. C’è però anche il problema opposto, le inondazioni, gli eventi estremi, e che colpiscono in maniera selettiva i quartieri più deboli delle aree urbane, che sono insediati nelle zone a più elevato rischio idrogeologico, lasciate libere dallo sviluppo ufficiale. “Lagos, in Nigeria, nel quartiere di Makoko le persone vivono su palafitte dentro la laguna: ovviamente in caso di eventi estremi chi paga le conseguenze è la popolazione più fragile. L’impatto socialmente selettivo dei cambiamenti climatici – conclude Bini – è evidente a poca distanza da Makoko, dove sorgerà Eco Atlantic City: su un’isola, inizialmente pensata per proteggere Lagos dall’innalzamento del livello del mare, si stanno costruendo i nuovi palazzi per le multinazionali e per le persone ad altissimo reddito”.