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Condividere l’energia: come farlo, al meglio

Al via l’avventura delle comunità energetiche, un nuovo strumento che punta tutto sulla sostenibilità ambientale e sociale e che potrà avere risvolti molto interessanti anche per le imprese. Per cominciare basta un impianto per le rinnovabili e la voglia di mettersi insieme per il bene del territorio

Le Comunità energetiche rinnovabili (Cer) sono la grande novità del settore dell’energia. Se ne parla da tempo e finalmente, dopo l’ultimo inquadramento normativo, sono diventate una realtà. La comunicazione intorno alle Cer è sempre più diffusa e pervasiva: non è raro ormai imbattersi in pubblicità online e in TV ma anche sulla carta stampata. Ma cosa sono davvero le Cer? Come operano, chi può farne parte, quali sono i vantaggi? La norma da cui derivano è la direttiva Ue n. 2001 del 2018, ma la vera svolta per l’Italia sono stati il più recente decreto attuativo del 7 dicembre 2023 e la delibera di Arera (Autorità di regolazione per energia reti e ambiente) n. 727, con cui è stato approvato il Testo integrato autoconsumo diffuso, così come modificato e integrato sempre da Arera il 30 gennaio 2024.
Fatta questa premessa normativa, stando alla definizione del Gestore servizi energetici (Gse), il garante e promotore dello sviluppo sostenibile, una Cer è un insieme di cittadini, piccole e medie imprese, enti territoriali e autorità locali, incluse le amministrazioni comunali, le cooperative, gli enti di ricerca, gli enti religiosi, quelli del terzo settore e di protezione ambientale, che condividono l’energia elettrica rinnovabile prodotta da impianti nella disponibilità di uno o più soggetti associatisi alla comunità. In una Cer, quindi, l’energia elettrica rinnovabile può esser condivisa tra i diversi soggetti produttori e consumatori, localizzati all’interno di un medesimo perimetro geografico.

Nuove risorse ai comuni

Insomma un sistema complesso e ancora in divenire, che coinvolge una molteplicità di soggetti, come ha spiegato Marco Costa, ingegnere energetico che si occupa di comunità energetiche e progetti europei presso l’Agenzia per l’energia e lo sviluppo sostenibile, ente/associazione di diritto privato in forma in house che svolge attività di assistenza tecnica sui temi della transizione energetica, lavorando soprattutto con la Pubblica amministrazione. “Ci stiamo occupando della costituzione delle Cer a traino pubblico – spiega Costa – attraverso studi preliminari tecnico-economici e legali. Dal nostro punto di vista le Cer sono anche un nuovo dispositivo giuridico per portare risorse ai comuni e risolvere questioni sociali, ambientali e nei progetti di adattamento climatico”.


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Un meccanismo di autoconsumo virtuale

Già, perché la comunità energetica non è solo finalizzata a benefici personali, ma è soprattutto “un’aggregazione di utenti finali di energia elettrica che, insieme, hanno l’obiettivo di ottenere benefici sociali e ambientali a livello territoriale”, secondo la definizione di Costa. I soggetti coinvolti, aggregandosi, creano un meccanismo di autoconsumo virtuale, il che significa che condividono l’energia rinnovabile (fotovoltaico, eolico, solare, biomassa ecc.) prodotta in eccesso su un determinato territorio grande o piccolo, “da porzioni di territorio comunale fino a più comuni aggregati”, precisa l’ingegnere energetico. “Il Gse premia la Cer con un incentivo quando questa è in grado di aumentare la capacità di produzione di energia da fonti rinnovabili e allo stesso tempo non stressa la rete nazionale. L’obiettivo è incentivare produzione e consumo di energia elettrica a livello locale”.

L’importanza della diversificazione

La Cer dev’essere costituita da almeno due clienti finali di energia elettrica, famiglie, Pmi, associazioni, enti locali, e almeno un soggetto deve possedere un impianto di energia rinnovabile di nuova costruzione, cioè installato dopo il 23 gennaio 2024. Formata la Cer, è necessario iscriverla sul portale del Gse per ottenerne i benefici. “Gli utenti della comunità – racconta Costa – devono essere all’interno di una cabina primaria, cioè di un perimetro, definito dal Gse e dai distributori di rete locali, al fine di poter calcolare l’energia condivisa. L’incentivo – continua – è erogato su base mensile e redistribuito secondo lo statuto che la singola Cer si è data. Gli incentivi si distribuiscono tra i soci e con finalità sociali e ambientali, come il rifacimento di aree verdi, oppure destinati a famiglie in difficoltà, enti e associazioni”. La diversificazione dei soggetti coinvolti è importante perché amplia le possibilità di utilizzo dell’incentivo, con potenziali benefici che vanno anche oltre il perimetro della Cer.

 
Un’opportunità per le Pmi

Sebbene dalle comunità energetiche siano escluse le grandi imprese e le aziende energetiche (vedi box), la formazione di una Cer può essere un’opzione interessante per le zone ad alta concentrazione di piccole e medie imprese, tanto che, rivela Costa, “ci sono già delle iniziative in questo senso di Confindustria e Cna”.
Nei comuni sotto i 5000 abitanti, peraltro, anche le piccole imprese membre di una Cer possono chiedere un finanziamento con contributo in conto capitale del 40%, finanziato dal Pnrr. L’incentivo erogato dal Gse è decurtato in base al finanziamento ricevuto.
“Un’altra peculiarità importante introdotta dall’ultimo decreto legge – sottolinea l’ingegnere – è la limitazione della distribuzione dei proventi tra gli utenti quando nella Cer sono coinvolte imprese: la norma impone che il 45% dell’incentivo sia obbligatoriamente destinato a progetti ambientali e sociali e non redistribuito tra i componenti della comunità”.


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Un modello aperto: il profitto non è tutto

Sono tanti i modelli di Cer che emergeranno nei prossimi anni: oggi siamo ancora in una fase preliminare. Per essere economicamente sostenibili e avere un impatto notevole a livello locale, soprattutto per sviluppare le finalità sociali e ambientali, sarà necessario che la Cer abbia una certa dimensione. “Gli investimenti – dice Costa – cominciano a muoversi quando gli impianti fotovoltaici vanno dal megawatt in su, anche in forma aggregata, per fare economie di scala”.
Sarà fondamentale fare sensibilizzazione a livello territoriale, ma non bisogna aspettarsi un modello particolarmente profittevole. “Dal mio punto di vista – conclude Costa – sarà interessante quando partiranno collaborazioni tra Cer e altri soggetti: per esempio un’impresa medio grande potrebbe decidere, come iniziativa nell’ambito del proprio bilancio Esg, di erogare contributi a finalità ambientali e sociali verso una comunità energetica che si trova sullo stesso territorio”.
La comunità energetica, in definitiva, è ancora un piccolo seme, ma da cui potranno germogliare moltissime possibilità.

ESCLUSIONI, ATTENZIONE ALLE CONTRADDIZIONI

Le grandi imprese e le aziende energetiche non possono far parte di una Comunità energetica rinnovabile. Tuttavia questa norma crea un impedimento anche per l’ingresso di soggetti con partecipazione pubblica. “Purtroppo – argomenta Marco Costa, ingegnere energetico presso l’Agenzia per l’energia e lo sviluppo sostenibile – c’è un riferimento normativo del 2005 che equipara alle grandi imprese tutte le società con più del 25% di partecipazione pubblica”.
Ciò significa che società patrimoniali o di scopo, che potrebbero avere importanti impatti a livello sociale, al momento sono escluse dalle Cer. “Questo – aggiunge Costa – è un tema che stiamo cercando di risolvere e chiarire col Gse, soprattutto se in questa restrizione rientrano le società che gestiscono l’edilizia popolare, poiché sarebbe in contraddizione con una delle finalità principali della Cer che è il contrasto alla povertà energetica”.