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La nuova epoca della bomba

Con le lancette del Doomsday Clock a soli 90 secondi dalla mezzanotte, il mondo torna a interrogarsi sull’ipotesi della guerra nucleare e su una minaccia che pareva dimenticata. Siamo davvero così vicini alla catastrofe? Forse no, però è bene sempre non sottovalutare il rischio

Lo scorso 24 gennaio il Bulletin of the Atomic Scientists ha spostato in avanti di dieci secondi le lancette del Doomsday Clock, portandole a soli 90 secondi dalla mezzanotte. La decisione, come si legge nel comunicato stampa diffuso dal bollettino fondato nel 1945 da un gruppo di scienziati dell’Università di Chicago, è stata dettata “in larga parte, ma non esclusivamente, dall’invasione russa dell’Ucraina e dall’aumento del rischio di un’escalation nucleare”. La notizia ha fatto rapidamente il giro del mondo. Soprattutto perché mai prima d’ora, neppure all’indomani della crisi missilistica di Cuba nel 1962, le lancette di quello che in Italia è stata ribattezzato l’orologio dell’Apocalisse erano state poste così vicine a quella mezzanotte che, fuor di metafora, rappresenta il rischio di una catastrofe umanitaria globale. Può essere il cambiamento climatico, la minaccia biologica, lo sviluppo di nuove tecnologie distruttive o, come in questo caso, il ritorno della bomba atomica. “Stiamo vivendo in un’epoca di rischio senza precedenti e l’orologio dell’Apocalisse riflette questa realtà”, ha commentato Rachel Bronson, presidente e ceo del bollettino. “Novanta secondi è il punto più vicino alla mezzanotte mai raggiunto ed è una decisione – ha proseguito – che i nostri esperti non hanno preso alla leggera”.
Negli ultimi anni la bomba atomica è tornata a farsi prepotentemente spazio nel panorama internazionale. In fondo, è dal 2010 che le lancette dell’orologio dell’Apocalisse seguono un lento ma costante declino verso la mezzanotte: la modernizzazione degli armamenti, il riarmo nucleare, la recrudescenza del nazionalismo, le guerre commerciali, le tensioni internazionali e, da ultimo, l’invasione russa dell’Ucraina avvenuta nel febbraio del 2022, con tutti gli annessi timori per un possibile utilizzo dell’arma nucleare da parte della federazione guidata da Vladimir Putin. Insomma, la bomba atomica è tornata a far paura, e non è forse un caso che proprio in questo periodo sia tornata anche a popolare il nostro immaginario culturale. L’ultimo lavoro teatrale di Stefano Massini, primo (e finora unico) autore italiano ad aggiudicarsi un Tony Award per il monumentale Lehman Trilogy, ripercorre per esempio le tappe iniziali di quel Progetto Manhattan che, negli Stati Uniti a cavallo degli anni ‘30 e ‘40 del secolo scorso, dette poi origine alla bomba atomica (vedi box a pag. 58). Il prossimo 21 luglio uscirà invece nelle sale statunitensi il nuovo film di Christopher Nolan, intitolato Oppenheimer e completamente incentrato sulla figura del fisico americano che una fortunata biografia firmata da Kai Bird e Martin J. Sherwin ha definito “il padre della bomba atomica”. Secondo Ottavia Credi, ricercatrice nei programmi Sicurezza e Difesa dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), “non è sorprendente che l’industria culturale torni a interessarsi a questi argomenti: del resto – osserva – se ne parla ormai da tempo anche sui mass media e tutto ciò alimenta un dibattito che poi si ripercuote inevitabilmente anche nella produzione di libri, film e opere teatrali, favorendo il confronto su un rischio che magari negli ultimi anni avevamo perso di vista”.

Tutto in 90 secondi?

La paura della bomba atomica affonda le radici in un’uggiosa mattinata del 16 luglio 1945. Alle 5:29, nel deserto di Jornada del Muerto, a circa 56 chilometri di distanza dalla cittadina di Socorro nel Nuovo Messico, venne fatto detonare il primo ordigno nucleare della storia: un prototipo delle bombe atomiche che meno di un mese dopo sarebbero state sganciate su Hiroshima e Nagasaki, provocando, secondo alcune stime, oltre 200mila vittime. L’ordigno era stato ironicamente chiamato The Gadget dagli scienziati del Progetto Manhattan, ma non ci volle molto ai presenti per capire che quell’arnese di ironico aveva ben poco. Subito dopo l’esplosione, secondo la ricostruzione fatta da Robert Jungk nel suo Gli apprendisti stregoni, Robert Oppenheimer citò un passo del Bhagavadgita, il testo sacro degli indù: “Io sono la morte che tutto rapisce, sommovitrice dei mondi”.
E dunque oggi, a quasi ottant’anni di distanza da quel test, siamo davvero così vicini alla distruzione del mondo, come afferma l’orologio dell’Apocalisse? Secondo Alessandro Marrone, responsabile del programma Difesa dell’IAI, il livello di allarme è forse eccessivo. “Credo che in passato siamo stati molto più vicini alla catastrofe nucleare: durante la crisi missilistica di Cuba, per esempio, siamo stati a pochi passi da un conflitto armato fra Stati Uniti e Unione Sovietica, le due superpotenze militari dell’epoca, entrambe dotate di un vasto arsenale nucleare”, riflette l’esperto. “Oggi il rischio c’è, però penso che l’esperienza della guerra fredda ed episodi come, appunto, la crisi missilistica di Cuba – aggiunge – ci abbiano fatto comprendere la portata della minaccia nucleare, infondendo in tutti noi la consapevolezza che un simile scenario sarebbe devastante per chiunque”. Per Fabrizio Battistelli, presidente e co-fondatore dell’Archivio Disarmo, invece, “l’orologio dell’Apocalisse ha un valore prettamente metaforico e simbolico, però è impostato sulla base di parametri scientifici che non possono essere trascurati: dire che siamo a 90 secondi dalla mezzanotte non ha alcun valore scientifico, ma è indicativo di un rischio che è presente e che deve essere adeguatamente affrontato”.


L’evoluzione della guerra in Ucraina

La principale fonte di rischio, come già accennato, è data attualmente dal conflitto in corso fra Russia e Ucraina. Ormai non si contano più le veementi dichiarazioni dell’establishment russo su un possibile ricorso alla bomba atomica. E lo scorso maggio la Russia ha annunciato il trasferimento di alcune armi nucleari tattiche nella vicina (e alleata) Bielorussia. Il fatto che se ne parli non implica tuttavia necessariamente che l’opzione sia davvero sul tavolo dei vertici militari russi. Magari, come afferma Marrone, “si tratta di semplici provocazioni volte unicamente a spaventare e confondere l’avversario, generando un clima di sospetto e deterrenza che potrebbe favorire il raggiungimento dei tradizionali obiettivi militari sul campo di battaglia”. Secondo Marrone, “la Russia ha avuto modo di introiettare durante la guerra fredda la grammatica della deterrenza: la bomba atomica è stata finora utilizzata soltanto in Giappone e un’eventuale bombardamento nucleare alle porte dell’Europa genererebbe un immediato cambio di paradigma, con esiti del tutto imprevedibili per tutte le parti in causa”. Il ricorso alla bomba atomica in Ucraina, per esempio, potrebbe portare a un ingresso diretto degli Stati Uniti nel teatro di guerra e a un’escalation militare fra due superpotenze nucleari. “Non credo che la Russia abbia interesse a sperimentare un simile scenario”, riflette Marrone.
In questo contesto, secondo Battistelli, “c’è una notizia buona e una notizia cattiva: quella buona è che la probabilità di un primo uso dell’arma nucleare è relativamente bassa, quella cattiva è che nessuno può però escludere a priori un simile evento”. Una testata nucleare, prosegue, “può essere lanciata per più motivi, che vanno dall’intenzionalità zero dell’incidente o dell’errore umano o tecnico, fino all’intenzionalità piena di una ritorsione o extrema ratio a fronte di una situazione che una delle parti giudicasse disperata”. Il che, osserva, “con il quadro politico e psicologico che emerge dell’establishment russo, non è rassicurante”.

La caduta dei trattati internazionali

Il numero di testate nucleari nel mondo, ricorda Battistelli, “è attualmente stimato fra le 12mila e le 13mila unità”. In passato era molto più alto ed era arrivato a toccare intorno alla metà degli anni ‘80 l’impressionante cifra di 65mila ordigni atomici. La gestione di un simile arsenale è stata finora regolamentata con una serie di accordi internazionali. Quello più famoso è senza dubbio il Trattato di non proliferazione nucleare, siglato nel 1970 con una validità iniziale di 25 anni e poi esteso a tempo indeterminato nel 1995. “Rappresenta, a tutt’oggi, l’unico strumento di portata globale in materia di controllo degli armamenti e di non proliferazione nucleare”, commenta Battistelli. Il trattato vieta la diffusione di armi nucleari e considera ufficialmente “Stati con armi nucleari” soltanto quelli che erano stati in grado di dotarsi di simili ordigni prima del 1967: Russia (attualmente detentrice di circa 6.000 armi nucleari), Stati Uniti (5.500), Cina (350), Francia (290) e Regno Unito (225), ovvero i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Peccato però, spiega Battistelli, che “nel corso del tempo altri quattro stati, ossia Pakistan, India, Israele e Corea del Nord, hanno sviluppato unilateralmente un proprio arsenale nucleare non autorizzato”. La stessa sorte è toccata anche ad altri accordi stipulati sull’argomento nel corso degli anni. Nel 2019, per esempio, gli Stati Uniti sono usciti ufficialmente dal trattato Inf, che era stato sottoscritto nel 1987 con la Russia (all’epoca ancora Unione Sovietica) per il bando globale delle armi nucleari di medio e corto raggio. E lo scorso febbraio la Russia ha annunciato la sospensione del trattato New Start, altra intesa bilaterale firmata con gli Stati Uniti con l’obiettivo di ridurre del 30% il limite di testate nucleari fissato dal precedente accordo Sort. “La caduta dell’ennesimo trattato, seppur non ancora ufficiale, avrebbe un grande valore simbolico”, osserva Credi. “Si verrebbe a creare una situazione in cui Stati Uniti e Russia, sulla spinta delle crescenti tensioni internazionali, potrebbero persino arrivare a raddoppiare i propri arsenali nucleari”, commenta la ricercatrice.



Gli altri scenari di crisi

I segnali di allarme non provengono tuttavia soltanto dallo scenario ucraino. Negli ultimi anni, per esempio, si è molto parlato del programma atomico della Corea del Nord e lo scorso marzo, a tal proposito, sono trapelate alcune indiscrezioni su un possibile nuovo test nucleare per il regime di Pyongyang. “Qui la situazione è particolare, non può essere affrontata con gli schemi che utilizziamo di solito negli altri scenari”, osserva Credi. “La Corea del Nord – prosegue – non è tra i firmatari degli accordi di non proliferazione e quindi non è soggetta alle regole che possono essere applicate agli altri Stati: è un panorama quasi imprevedibile, è difficile stabilire a priori quello che potrà accadere con le informazioni che abbiamo a disposizione”. Altre preoccupazioni riguardano la Cina e, in particolare, lo scontro diplomatico con Taiwan. “La crescita economica e politica degli ultimi anni ha consentito alla Cina di assumere un atteggiamento più assertivo sul piano internazionale”, dice Marrone. “La politica di Pechino – aggiunge – ha tuttavia finora mantenuto uno stile piuttosto pacato e quindi mi viene difficile immaginare un possibile ricorso alla bomba atomica in questo contesto”. Certo è che lo scenario di Taiwan, come testimoniato dalle recenti esercitazioni militari nello stretto, resta particolarmente delicato. “Il confine è sicuramente più teso, un eventuale scontro militare potrebbe portare a un coinvolgimento più o meno diretto degli Stati Uniti e allora – conclude Marrone – non si potrebbe escludere l’ipotesi di un’escalation nucleare”.


I PROFETI DELLA BOMBA
L’ultimo lavoro teatrale di Stefano Massini si apre fra le valigie di un seminterrato di New York e si conclude nelle segrete stanze di un laboratorio in cui, forse all’insaputa dei suoi stessi protagonisti, si stanno decidendo le sorti del mondo. Pubblicato da Giulio Einaudi Editore, il volume ripercorre i primi passi del Progetto Manhattan e si intitola, con una scelta che sarebbe forse piaciuta al Paul Erdös dell’opera, semplicemente Manhattan Project. La quarta di copertina definisce il volume “una ballata fluviale che racconta una storia americana con radici in Europa e conseguenze globali”. In uno stile del tutto simile all’epopea dedicata all’ascesa e alla caduta della casata dei Lehman, l’opera presenta un registro e un afflato degni di un poema epico, quasi omerico, con quelle formule ripetute all’infinito che ricordano da vicino gli epiteti con cui gli aedi greci erano soliti prendere tempo e fare mente locale per recitare a memoria qualche canto dell’Iliade o dell’Odissea. Perché epico è forse davvero il racconto dalla nascita della bomba atomica.
La vicenda ruota tutta attorno alle speranze, ai sogni, alle paure, ai tic, alle ossessioni, alle nevrosi, ma anche alle battute e all’umorismo yiddish, di un gruppo di fisici e scienziati che si ritrovano catapultati dalle cattedre universitarie ai laboratori militari in cui si lavora e si briga per costruire l’arma più potente della storia, quella che, negli auspici delle autorità statunitensi, potrà porre fine alla seconda guerra mondiale. Riusciranno davvero a farlo? E riusciranno a farlo prima del Reich, di colui che viene definito “l’imbianchino”? E, se sì, quali saranno le conseguenze per la pace mondiale? Domande del tutto scontate per noi lettori del XXI secolo, ma assolutamente scomode per uomini di scienza che prima di allora non si erano mai dovuti scontrare con la responsabilità morale delle proprie scoperte. Sono tanti i personaggi che ci passano davanti agli occhi: il già citato Paul Erdös, poi Leó Szilárd, Ed Teller e Jenö Wigner, sullo sfondo anche Albert Einstein ed Enrico Fermi, passando per il finanziere Alexander Sachs e per l’analitico Vannevar Bush, fino ad arrivare a quel Robert Oppenheimer che si prenderà piano piano la scena e che si assumerà la responsabilità di convocare una riunione con tutti i “profeti” della bomba per prendere la decisione definitiva sulla realizzazione del progetto.