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La ricerca sfida i grandi mali del nostro tempo

La scienza medica negli ultimi anni ha fatto passi avanti importanti, spinta anche da una rinnovata sensibilità istituzionale. Medicina di precisione, mRna e diagnosi precoci, abbinate a nuove scoperte, potranno rivoluzionare il nostro modo di curarci

A tre anni dallo scoppio della pandemia l’approccio verso la sanità e la prevenzione è cambiato. In primis a partire dalle coscienze delle persone, più attente e interessate a tematiche come la ricerca o la profilassi. Non solo, anche a livello di governance la gigantesca mole di investimenti in ricerca è servita da camera di amplificazione per dare impulso a cure che potrebbero cambiare per sempre il nostro modo di curarci. Una su tutte è la tecnologia a Rna messaggero, più comunemente conosciuta come mRna. Secondo il dottor Richard Hackett, ceo della Coalition for Epidemic Preparedness and Innovations (Cepi), uno dei maggiori impatti della pandemia nell’ambito della ricerca è stata la riduzione dei tempi per molte sperimentazioni di vaccini. In un’intervista al Guardian Hackett ha spiegato come l’urgenza e gli interventi massicci e tempestivi di Governi in collaborazione con aziende private abbiano permesso di comprimere i risultati in un anno e mezzo, laddove in altre situazioni sarebbe servito un quindicennio.
Questa accelerazione non si è esaurita una volta che l’ondata pandemica si è affievolita: la tecnologia di vaccini a Rna messaggero ha mostrato un’estrema duttilità, tanto da portare i ricercatori all’idea rivoluzionaria di poterla impiegare per diverse condizioni e patologie, come cancro, malattie cardiovascolari e autoimmuni.


mRna: il vaccino che istruisce le difese immunitarie

La peculiarità della tecnologia a mRna è la sua estrema duttilità e capacità di stimolare una risposta immunitaria specifica per la patologia da combattere. Come spiegato da Ruggero De Maria, professore ordinario di patologia generale dell’Università del Sacro Cuore “vengono identificate le mutazioni presenti sulle cellule tumorali. Queste presentano un Dna differente rispetto alle cellule normali, in particolare in quei geni, denominati oncogeni, che mutando causano il cancro: vengono quindi prodotti dei vaccini personalizzati contenenti l’mRna delle mutazioni di ciascun tumore che, una volta iniettati, producono gli antigeni tumorali e stimolano la risposta immunitaria specifica contro le cellule cancerose”. Gli studi sono iniziati con il vaccino per il melanoma, ma la ricerca sta ottenendo notevoli risultati per altre forme di neoplasia: “la maggiore efficacia dell’immunoterapia si riscontra in genere nei tumori con un numero elevato di mutazioni, come nel melanoma e nei tumori al polmone dei fumatori. Tuttavia, con l’impiego dei vaccini a mRna potrebbe essere possibile avere un potenziamento dell’immunità antitumorale anche nei confronti dei tumori in cui adesso l’immunoterapia non funziona o funziona solo in una frazione dei pazienti, come quelli della mammella, della prostata o del pancreas. I vaccini a mRna sono i più flessibili e sono facili da ingegnerizzare e adattare rapidamente al profilo del tumore – sottolinea De Maria – la loro attività principale è quella di istruire i linfociti che vengono attivati in maniera specifica per colpire i tumori. Associati alle attuali immunoterapie con anticorpi monoclonali, che potenziano l’azione dei linfociti T, stanno dando dei risultati terapeutici molto importanti, come dimostrato dalla riduzione del 44% delle recidive, quindi della formazione di metastasi nei pazienti operati per un melanoma avanzato”.
Se per il vaccino mRna per il cancro ci sono dei risvolti che possono far trapelare grande ottimismo, “sul fronte delle malattie cardiovascolari la strada è ancora lunga – puntualizza il professore –, attualmente ci sono solo sperimentazioni, ma servirà tempo perché i trial clinici diano risultati affidabili”. Nonostante i grandi passi avanti effettuati principalmente contro alcune neoplasie “non ci attendiamo niente di miracoloso – frena il dottor De Maria –, i tempi dei trial sono lunghi e sono stati svolti su un campione di pazienti ancora ridotto. Siamo ottimisti, ma ci vorrà ancora parecchio tempo per fare le sperimentazioni cliniche e avere le necessarie autorizzazioni dagli enti regolatori”. Tuttavia, lo scenario potrebbe mutare rapidamente perché “sia in Italia sia nel mondo stiamo assistendo a un’impennata degli investimenti nello sviluppo di tecnologia a mRna per i vaccini contro il cancro. Se tutto andrà bene, nei prossimi due o tre anni queste tecniche saranno utilizzate su scala sempre più larga. Inoltre – conclude De Maria – quando ci sono terapie con un così forte impatto sulla salute le procedure di approvazione vengono snellite”.

Sla, una piccola speranza

Non solo per il grande male dei nostri tempi, ma anche per malattie degenerative fino a oggi incurabili si intravede un timido spiraglio di luce. È il caso della Sclerosi Laterale Amiotrofica, conosciuta come Sla, una malattia del sistema nervoso che causa la perdita del funzionamento dei motoneuroni, portando a una progressiva perdita di tutte le funzioni muscolari, fino a inficiare anche quelle vitali come battito cardiaco e respiro. La caratteristica più drammatica della malattia è che anche nella fase più severa, quando il respiro è indotto artificialmente, le funzioni cerebrali non vengono compromesse e il paziente rimane completamente cosciente. “L’incidenza della malattia è tre malati ogni 100mila abitanti all’anno, oggi in Italia ci sono 6000 persone affette da Sla”, spiega il professor Adriano Chiò, docente di Neurologia presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia di Torino. “Attualmente, una soluzione migliorativa universale per questa condizione non c’è perché è una malattia molto variabile ed eterogenea. Le cause sono tante, sia genetiche sia ambientali, ogni paziente necessita una cura diversa, si tratta di arrivare a una medicina di precisione. Ci sono tuttavia dei risvolti positivi, la ricerca, unendo le forze in una tela globale, sta effettuando studi promettenti”. Nell’ambito della genetica, a oggi sono stati individuati circa una quarantina di geni che possono essere correlati alla malattia. “La via genetica tuttavia non basta per individuare le radici della malattia – spiega il professor Chiò – rimangono i fattori ambientali difficili da studiare. Si sta lavorando per creare dei modelli cellulari della malattia, e questo viene fatto attraverso rilievi di cute dei pazienti, creando delle cellule totipotenti chiamate iPS in grado di diventare neuroni utili per studiare sia le cause del danno sia eventuali terapie. Si tratta di una strada promettente ma molto costosa, in fase iniziale ma che sta conoscendo sviluppi rapidi”.
L’unico farmaco attualmente funzionante contro la malattia si chiama Tofersen. “Ha rappresentato una grande svolta perché è davvero una medicina di precisione”, ribadisce Chiò. “Funziona solo sui pazienti con la mutazione di un gene (Sod1), il primo la cui mutazione è stata associata alla Sla e che rappresenta il 2% dei pazienti”. Una quota piccola, che però dimostra come sia possibile rallentare e addirittura in alcuni casi fermare il decorso di questa malattia, soprattutto se il farmaco viene somministrato in fase iniziale. Nonostante i risultati ottenuti dal Tofersen siano assolutamente positivi la platea di pazienti che ne potrebbero beneficiare è ridotta, per questo si sta lavorando a molte altre cure. A Torino, per esempio, riporta Chiò, sono in una fase iniziali e studi su diversi geni, tra cui uno (FUS) più raro di Sod1, ma più aggressivo. Ci sono anche altri farmaci in prova negli Stati Uniti, che però attualmente non hanno avuto il via libera dell’Ema (European Medicines Agency): si tratta dell’Edaravone e la combinazione di due molecole, taurursodiolo e il fenilbutirrato di sodio. Rispetto al Tofersen, che è più efficace, ma specifico per una mutazione, queste cure “rallentano il decorso della malattia, senza bloccarlo, ma in maniera generale, anche in pazienti che non hanno mutazioni”, conclude il professor Chiò.


DIAGNOSI PRECOCE E RICERCA: LA LUNGA BATTAGLIA ALL’ALZHEIMER
Un’altra patologia degenerativa che colpisce il sistema nervoso, per cui ancora oggi non è stata individuata una cura efficace, è la malattia di Alzheimer. Una patologia ad alto rischio di esclusione sociale, perché colpisce prevalentemente nell’età più fragile dell’anzianità e richiede un livello di esborso economico per l’assistenza molto alto. In un paese che invecchia, come l’Italia, questo tipo di malattia diventerà sempre più diffusa. A oggi in Italia ci sono 700mila malati di Alzheimer, in Europa la percentuale della popolazione colpita è di circa il 3%. Numeri che però sono destinati ad aumentare a causa dell’invecchiamento della popolazione, così come lo sono i familiari coinvolti nell’assistenza di questo tipo di pazienti, oggi tre milioni in Italia, un numero già molto alto. Esiste una grande attesa per la ricerca di una cura perché “la spesa è oltremodo onerosa sia sul piano assistenziale sia dal punto di vista del dispendio economico”, spiega Patrizia Spadin presidente dell’Associazione Italiana Malattia di Alzheimer. “Ad oggi – aggiunge – ci sono dei farmaci per l’Alzheimer, che però intervengono solo sui sintomi e non sulla malattia”. A questo proposito ci sono dei grossi investimenti in ricerca che hanno portato all’identificazione di molecole attive sulle radici della malattia e che, una volta che saranno farmaci effettivamente disponibili, dovranno essere somministrati nelle fasi prodromiche o lievissime della patologia, per essere davvero efficaci. “In questo scenario l’adeguamento della rete diagnostica assume un ruolo fondamentale”, spiega Spadin. “Dobbiamo farci trovare pronti e sviluppare un piano di interventi concreti ed efficaci. Solo così saremo in grado di sfruttare le potenzialità di queste cure e distribuirle adeguatamente in tutto il territorio e a tutti gli aventi diritto. L’individuazione precoce della malattia è comunque, per i pazienti di oggi e per quelli di domani, il tassello fondamentale per migliorare la qualità di vita dei malati e dei familiari, bisognosi di competenza e sostegno”.