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Sanità, una questione di sinergie tra pubblico e privato

L’andamento demografico, l’invecchiamento della popolazione e la sostenibilità della spesa pubblica pongono la necessità di una maggiore collaborazione fra Servizio sanitario nazionale e fondi integrativi: a beneficiarne sarebbero innanzitutto i cittadini

Non servono grandi discorsi per spiegare il perché di un’integrazione cruciale nel settore della sanità in Italia. Bastano pochi dati: 1) anche se spesso si parla di tagli robusti, dal 2013 in poi la spesa sanitaria è cresciuta del 16,6%, a un ritmo ben superiore rispetto all’inflazione, toccando nel 2021 quota 128 miliardi di euro, per un costo pro capite di 2.167 euro; 2) nel 2050 un terzo della popolazione italiana sarà costituita da ultra sessantacinquenni, di cui circa sei milioni vivranno soli; 3) siamo sì in cima alle classifiche per longevità, ma sotto la media europea per aspettativa di vita in buona salute.
Invecchiamento della popolazione, efficientamento dei servizi offerti dal Servizio sanitario nazionale (Ssn) e rafforzamento di misure di prevenzione e active ageing sono dunque le ragioni che dovrebbero spingere la sanità italiana verso una maggiore alleanza tra pubblico e privato. Naturalmente con la consapevolezza di dover seguire logiche diverse e autonome, ma tra loro complementari.

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Iniquità fiscali e il bisogno di una legge quadro 

I trend demografici in corso richiederanno già a breve nuovi interventi, soprattutto per long term care (Ltc) e non autosufficienza: oneri difficilmente sostenibili per le finanze statali, considerata l’ampiezza del debito pubblico. E se a ciò si aggiungono le criticità palesate da Covid-19 (su tutte, la mancanza di un adeguato tasso di rimpiazzo tra il personale sanitario e le carenze dei presidi territoriali), si fa indubbia la presenza di grandi spazi per la sanità integrativa.
Un’evoluzione di cui potrebbe beneficiare anche la lotta al sommerso, potenzialmente enorme nel caso di spesa non intermediata da forme integrative, ma che oggi sconta il peso delle iniquità fiscali e della mancanza di una legge quadro di riferimento. Quanto al primo punto, basti pensare alla sostanziale disparità di trattamento tra aderenti ai fondi contrattuali e iscritti al di fuori di accordi aziendali o territoriali. Quanto al secondo, invece, va rilevato che gli unici dati ufficiali disponibili per mappare il settore sono quelli dell’anagrafe generale tenuta presso il ministero della Salute: l’iscrizione è però volontaria e si limita ad attestare l’esistenza dei fondi sanitari con funzioni di monitoraggio, senza svolgere attività di vigilanza e controllo su prestazioni, gestione patrimoniale o trasparenza verso gli iscritti.


“Nel 2021 la spesa out of pocket in sanità ha superato i 40 miliardi di euro”

 
La miopia delle scelte politiche

Al 2020 si contavano 318 fondi, per un totale a carico di 14.715.200 persone e un ammontare generale di erogazioni pari a 2,83 miliardi di euro, di cui 928 milioni (il 32,8%) destinati a prestazioni al di fuori dei livelli essenziali di assistenza (Lea). Numeri che tradiscono la miopia di parte della classe politica, che negli anni passati, nel timore di un contrasto con il Ssn, ha cercato di limitare lo sviluppo della sanità privata, senza rendersi conto che di sinergie ben strutturate beneficerebbero in primis i cittadini. Nel 2021 la spesa per welfare privato a carico delle famiglie ha raggiunto i 101 miliardi di euro: del 46% destinato alla sanità, solo 5,8 miliardi sono stati intermediati, con tutti i benefici fiscali e organizzativi del caso. La gran parte (40,6 miliardi) è imputabile alla cosiddetta spesa out of pocket.
Al Governo Meloni e alla nuova legislatura, impegnata con la decima commissione permanente del Senato in una nuova indagine conoscitiva nel quadro dell’efficacia complessiva dei sistemi di welfare e di tutela della salute, è ora affidato un importante cambio di passo.