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Fonte immagine: AndreyPopov - iStock

Il divario previdenziale fra Nord e Sud

Il rapporto fra entrate e uscite pensionistiche nel Mezzogiorno risulta ancora lontano dal punto di equilibrio: servono misure per il miglioramento della produttività e interventi per contrastare il fenomeno dell’evasione e dell’elusione

In Italia si è sempre affrontato il tema del welfare come se il nostro fosse un paese omogeneo, con le stesse criticità e opportunità. Il risultato è che, ogni volta che si è proceduto con riforme o interventi, lo si è fatto con un approccio identico su tutto il territorio. Uno scenario confutato dai dati, come quelli di recente presentati al Cnel dal centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali.
Il confronto tra macroaree evidenzia pesanti disparità, a sfavore del Mezzogiorno. Basti pensare che nessuna delle otto regioni meridionali presenta entrate contributive e uscite per prestazioni vicine a quel rapporto del 75% che potrebbe dirsi indicativo di un sistema prossimo all’equilibrio. Posto all’80,45% il tasso di copertura nazionale, il Sud si ferma al 62,25%, con la Calabria che non arriva neppure al 50%. Non solo, dall’analisi per tipologia dei trattamenti erogati, emerge che al Sud prevalgono prestazioni sorrette da contribuzioni modeste, come risultato di carriere professionali discontinue, spesso assistite (prestazioni di sostegno al reddito, giornate ridotte in agricoltura, ecc.) e talvolta caratterizzate da periodi di lavoro irregolare. Insomma, un quadro che impone un’analisi approfondita, al netto di intenti ideologici o persecutori.


Non ripetere gli errori del passato

Che fare per colmare il gap? In primis, evitare il ripetersi di errori del passato, come la decontribuzione al Sud, artefice di un’occupazione di sussistenza, di fatto dissolta o trasformatasi in ampie sacche di sommerso, una volta decaduti gli sgravi stessi. Gli oltre 40 anni di storia presi in esame dal documento illustrano bene come l’insufficiente sviluppo di alcune aree del Paese sia stato spesso compensato da politiche assistenziali che, nel lungo periodo, non hanno prodotto vantaggi competitivi, ma hanno anzi sortito l’effetto opposto di rallentarne la crescita. Eppure, ancora oggi, misure volte più a sussidiare che a dare sviluppo pesano sul nostro debito pubblico, favorendo oltretutto quella commistione tra previdenza e assistenza che penalizza l’Italia nel confronto con gli altri paesi dell’Unione Europea. Rafforzare le politiche attive per il lavoro limitando quelle passive non è però che una parte della soluzione.


L’insufficiente sviluppo di alcune aree del Paese è stato compensato da politiche assistenziali che però non hanno prodotto vantaggi competitivi



Un miglioramento generalizzato della produttività

Prima ancora, occorre creare le condizioni per un miglioramento generalizzato della produttività del Mezzogiorno, dove al momento mancano servizi, infrastrutture o misure a favore di turismo e sicurezza, indispensabili per creare attrattività e magari rinforzare il progetto delle Zone economiche speciali (Zes). Guardando ai pensionati (ma non solo), quello fino a poco tempo fa attuato dal Portogallo potrebbe essere ad esempio un buon modello da imitare.

Il contrasto all’evasione

Tra gli interventi non vanno infine trascurati quelli volti a contrastare elusione ed evasione fiscale, che tendono a prevalere proprio nelle regioni con i maggiori disavanzi complessivi: la quota legata ad attività sommerse non produce versamenti contributivi e fiscali, ma assorbe prestazioni in larga misura. Per il bene dell’intero Paese, bisogna allora smettere di alimentare un meccanismo per il quale meno si dichiara maggiori sono le agevolazioni cui si ha accesso. Ecco perché servono, finalmente, un’anagrafe generale dell’assistenza e limitazioni a strumenti facilmente eludibili come l’Isee, a favore di controlli più efficaci che consentano di aiutare solo chi si trova davvero in uno stato di bisogno.