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Italia fragile, occorre fare di più

In un Paese dove il 91% dei comuni è a rischio idrogeologico e si spende sette miliardi di euro l’anno per i danni da catastrofi naturali, la collaborazione tra gli enti pubblici e i privati è sempre più d’attualità. Quale la strategia giusta per proteggere il patrimonio naturale, umano e culturale italiano?

Le catastrofi naturali non esistono. O meglio, gli eventi che si trasformano in disastri sono spesso responsabilità diretta delle scelte dell’uomo. In un Paese fragilissimo, decisioni scellerate, incuria, abusi e soprattutto mancanza di manutenzione delle opere e del territorio sono le prime cause di distruzioni e vittime. I recenti (ma anche non troppo recenti) terremoti e le inondazioni hanno causato tanti danni proprio perché il territorio e le comunità non sono state messe nelle condizioni di sopportare questi eventi. Se prevenzione non vuol dire (solo) poter prevedere un evento avverso, la gestione delle minacce significa garantire la continuità di vita del Paese, dell’operatività del suo tessuto produttivo, della conservazione dei suoi beni culturali, sociali, pubblici. 

Mario Tozzi, geologo e divulgatore scientifico, in occasione di un recente convegno della società di ripristino Belfor, in collaborazione con lo studio legale Tonucci & Partners, Cineas e con l’organizzazione a cura di Insurance Connect, editore di Società e Rischio, ha sottolineato come in Italia sia necessario “smontare la cultura del fatalismo”, attraverso la conoscenza dei fenomeni, la memoria e la pianificazione territoriale. Il valore della conservazione si sposa con quello della prevenzione, mentre la cultura dell’emergenza non vuol dire abituarsi a uno stato emergenziale perenne ma codificare prassi condivise per l’intervento.


Il Paese delle frane (dei terremoti e delle alluvioni) 

I numeri, purtroppo, parlano da soli. Lo Stato impiega oltre sette miliardi di euro all’anno per coprire i danni riconducibili alle catastrofi naturali: soldi spesi a discapito di tutta la collettività. L’Italia è un Paese geologicamente giovane e molto attivo, il cui territorio è costantemente sotto pressione dall’attività dell’uomo. Su 750mila frane che avvengono sul continente europeo, circa 500mila accadono in Italia: una cifra non paragonabile agli altri Paesi europei. Da dati della Protezione civile, si scopre che oltre 7200 comuni è a elevato rischio idrogeologico, cioè il 91% dei comuni italiani, mentre esposte alla stessa minaccia sono quasi 763 mila imprese. Un milione di edifici è a rischio crollo per varie ragioni legate agli eventi naturali, per un totale di nove milioni di cittadini. Tra il 2012 e il 2017 sono state colpite da alluvioni 75 province italiane, 194 comuni, per un totale di quasi 28 mila evacuati. Se guardiamo i terremoti, i numeri sono impietosi: solo il sisma de L’Aquila nel 2009 è costato allo Stato 18 miliardi di euro, sono morte 309 persone e gli sfollati sono stati circa 80 mila. Per quanto meno cruento, il terremoto dell’Emilia nel 2012 ha causato comunque 17,4 miliardi di danni e ha messo in ginocchio migliaia di attività produttive; quello del centro Italia del 2016 ha causato danni per quasi 15 miliardi.


Un labirinto di norme 

Negli ultimi 20 anni, per ogni miliardo stanziato in prevenzione, oltre 2,5 sono stati spesi per riparare i danni: è evidente che qualcosa non funziona nel sistema italiano. La cultura del rischio tra la popolazione è ancora troppo bassa ma anche da parte del settore pubblico non si fa abbastanza e, anzi, talvolta si dà il cattivo esempio. Oltre alla cronica mancanza di fondi delle amministrazioni pubbliche, dicono gli addetti ai lavori e gli operatori privati, società di ripristino, assicurazioni, è spesso complesso navigare attraverso un coacervo di norme che si stratificano e che ingessano le procedure: le leggi che si occupano della gestione delle emergenze in Italia sono molteplici ed è difficile metterci mano e ordinarle.


Un modello di collaborazione è possibile 

Negli anni si è parlato più volte dei tentativi di creare un modello di collaborazione pubblico-privato, non necessariamente basato sull’obbligatorietà della polizza assicurativa: un modello di partnership che non avvantaggi troppo il settore privato, nell’ottica comunque di un mercato che funzioni e si autoregoli. Un esempio di come un’amministrazione pubblica può collaborare con il settore privato in modo virtuoso e in parte innovativo è ciò che è stato fatto ad Ascoli Piceno, comune assicurato, a proposito di un allagamento di una scuola, in cui l’assicurazione ha provveduto interamente al ripristino dei locali. Un servizio di questo tipo è un’esigenza per lo più condivisa dagli amministratori locali. Ma questo prevede che gli standard di sicurezza che si chiede ai privati siano impiegati anche dagli enti pubblici, cosa che molte volte non avviene.


I tempi lunghi dei beni culturali 

Certo, non tutte le istituzioni sono uguali, in questo senso. Il comparto dei beni culturali viaggia spesso su binari paralleli, e quantificare i costi è quasi impossibile. Assorestauro, l’associazione che riunisce le imprese che si occupano del restauro dei beni culturali, sottolinea come il problema dei tempi sia decisivo perché la fase emergenziale si protrae molto a lungo: talvolta per decenni, come nei casi del restauro del teatro La Fenice di Venezia o del Petruzzelli di Bari. Per passare alla ricostruzione vera e propria, la burocrazia è infinita. Dove c’è l’assicurazione, invece, il discorso è diverso: il restauro del monastero di Polirone a San Benedetto Po (Mantova), dove il comune era assicurato per sei milioni di euro, è stato portato a termine in 11 mesi. Ad Amatrice, dal 2016 a oggi non è stato fatto ancora nulla.