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Accordo Israele-Eau-Bahrein: cosa cambia in Medioriente

L’intesa siglata a Washington il 15 settembre, con la regia di Donald Trump, salda l’alleanza in chiave anti-Iran, spiega un’analisi dell’Ispi

Lo scorso 15 settembre Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein hanno firmato quello che il presidente statunitense Donald Trump e molti osservatori hanno definito “un accordo storico”. L’intesa, per raggiungere la quale è stata fondamentale la mediazione americana, prevede la normalizzazione delle relazioni tra i tre stati mediorientali. Presenti a Washington, dove l’accordo è stato siglato, il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu e i ministri degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti (EAU) e del Bahrein.
L’accordo sancisce così l’avvio di relazioni diplomatiche ufficiali portando a quattro i paesi del Medio Oriente che riconoscono Israele, dopo l’Egitto (1979) e la Giordania (1994). In cambio, Netanyahu si è impegnato a mantenere in sospeso l’annessione dei territori in Cisgiordania. L’accordo avrà valore soprattutto per gli scambi commerciali e gli investimenti nella regione, ma rischia di scardinare i già fragili equilibri geopolitici mediorientali. Secondo Annalisa Perteghella, research fellow dell’Ispi, in cima alla lista di chi “ha già vinto”, grazie all’accordo, c’è il presidente Usa, che ambisce a un ruolo di peacemaker mondiale, “ruolo che sta cavalcando in previsione delle presidenziali del 3 novembre”.
Oltre alle ricadute commerciali, l’accordo di metà settembre porterà in dote un aiuto a Israele a diminuire il suo isolamento nella regione. “Per il premier Benjamin Netanyahu si tratta di una doppia vittoria”, grazie all’allargamento dell’asse regionale contro l’Iran. Un nemico comune ad Abu Dhabi, e al Bahrein, paese retto da una monarchia sunnita ma dalla popolazione a maggioranza sciita, che Manama teme possa rivelarsi una quinta colonna di Teheran.
Chi invece ha criticato ferocemente l’accordo è la Palestina, il cui primo ministro Mohammed Shtayeh ha parlato di “giornata nera” per la storia delle nazioni arabe e ha chiesto al presidente Mahmoud Abbas di riconsiderare le relazioni tra l’Autorità Palestinese e la Lega Araba, accusata di inerzia e tradimento. Il congelamento, forse solo temporaneo, del progetto israeliano di annessione dei territori in Cisgiordania, secondo l’analista dell’Ispi, “non basta alla leadership palestinese, la cui causa, finora unica moneta di scambio per un riconoscimento di Israele da parte dei paesi arabi, perde smalto e attualità”. Uno scenario che sembra ora sempre più inverosimile: “la solidarietà internazionale per la causa palestinese si fa più debole, mentre si rafforzano gli assi contrapposti a livello regionale”.
Tuttavia, come sottolinea Perteghella, sebbene sia stato presentato come un accordo di pace, l’intesa firmata il 15 settembre tale non è: “in primo luogo perché i paesi in questione non sono mai stati formalmente in guerra; in secondo luogo perché non coinvolgendo la componente palestinese esso non rappresenta un avanzamento del processo di pace. È semmai la ratificazione dell’esistente, l’ufficializzazione di relazioni in corso da anni a livello non ufficiale. A fare da catalizzatore dell’allineamento in questi anni è stata una comune percezione dell’Iran come principale minaccia strategica, particolarmente forte nel caso di Israele”.