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Gli effetti indiretti del climate change

Lo stravolgimento climatico sta minando la dinamica geopolitica del nostro pianeta. Lo conferma un rapporto CeSi che ne evidenzia l'impatto sugli equilibri socio-economici nelle aree povere del Mondo, dove scontri tribali e organizzazioni armate mettono a rischio l'accesso alle risorse

La temperatura media del nostro pianeta rischia di aumentare di circa 1,5 gradi celsius, tra il 2030 e il 2050, con effetti devastanti non solo sull'equilibrio biologico del nostro Pianeta, ma anche su quello politico, economico e sociale.
Come dimostra il rapporto realizzato dal Ce.S.I., con il sostegno della Fao - dal titolo Food and Security: il ruolo dello sfruttamento e della gestione delle risorse naturali nella ricerca jihadista di legittimazione sociale - il climate change sta incrementando le situazioni di vulnerabilità in Africa, Medio Oriente e Asia, creando tensioni fra Stati e tra gruppi tribali che lasciano ampio spazio a gruppi armati non statali.

Tra siccità e leggi ambigue

È quello che sta avvenendo nel Sahel dove desertificazione e siccità inaspriscono la competizione per la terra e dove il conflitto tra pastori semi-nomadi e agricoltori è diventato la principale minaccia alla stabilità del Paese. Un fenomeno destinato ad aumentare e ben rappresentato dal caso del Fulani, un gruppo di 25 milioni di pastori nomadi, sparsi in 21 paesi africani, che hanno innescato una guerra non dichiarata con le comunità locali di agricoltori, che procede di pari passo con il deterioramento delle condizioni ambientali. Il cambiamento climatico, infatti, riducendo le risorse idriche e dei pascoli nel Sahel, ha reso conflittuale quella che prima era una relazione simbiotica basata sul principio del reciproco vantaggio. Un conflitto ulteriormente aggravato dall'atteggiamento parziale dei governi che hanno scelto di salvaguardare gli interessi degli agricoltori a scapito di quelli dei pastori.
Alla difficoltà e disparità di accesso alle risorse si aggiunge anche un'ambigua regolamentazione relativa allo sfruttamento di acqua, suolo, raccolto e bestiame. È il caso di molti stati africani, come il Mali, il Burkina Faso e il Niger dove ogni territorio è regolato da consuetudini e leggi tradizionali, anche centenarie, diverse fra loro e soprattutto non integrate con le leggi statali. Questo scollamento tra legge centrale e locale genera conflitti, a cui si aggiungono nepotismo, corruzione e anarchia.

Uno Stato parallelo
Di tutto questo beneficiano le organizzazioni jihadiste le quali, approfittando della debolezza della governance statale e cavalcando il disagio sociale ed economico delle minoranze, utilizzano la loro capacità di fornire servizi educativi, assistenziali e di difesa degli interessi delle comunità emarginate, per accaparrarsi il controllo delle risorse naturali, amministrare vasti territori e creare un sistema alternativo alle istituzioni governative.
Secondo il rapporto, infatti, questi gruppi armati non statali hanno acquisito legittimità e sostegno popolare perché sono riusciti ad affrontare parte dei problemi sociali ed economici dei gruppi etnici più vulnerabili, quali la difesa degli interessi dei pastori semi nomadi Fulani, la regolamentazione dell'accesso alle risorse idriche e terresti, la gestione di siccità e calamità naturali e il controllo del mercato del grano.

Strategia a lungo termine
Ma se finora governi e organizzazioni internazionali hanno sottovalutato la sfida dei conflitti sociali e la minaccia delle organizzazioni jihadiste, oggi c'è la consapevolezza che serve una strategia a lungo termine che favorisca lo sviluppo economico, attenui i conflitti sociali e ottimizzi la gestione delle risorse naturali anche attraverso un’agricoltura smart e la creazione di competenze e professionalità.
Il rapporto indica le principali azioni da compiere, evidenziando il ruolo chiave della cooperazione internazionale nel sostenere l'operato dei governi dei paesi vulnerabili nella lotta alla desertificazione (assegnando più fondi alla riforestazione e alla biodiversità protezione), ma anche nel miglioramento della regolamentazione dell'uso del suolo e delle risorse idriche. Qui vanno definiti i meccanismi di accesso equo alle risorse naturali da parte dei gruppi sociali coinvolgendo i leader locali nel processo decisionale sui diritti fondiari e integrando la legge consuetudinaria con quella statale.
Parallelamente vanno migliorati i meccanismi di risoluzione pacifica delle controversie e di mediazione sull'uso delle risorse idriche e terrestri, sostenendo l'azione dei leader tribali e agevolando il dialogo tra pastori e agricoltori semi nomadi, anche con la creazione di aree di pascolo protette. Alla base di questo, però, va ricreato quel legame di fiducia tra istituzioni e comunità locali a cui garantire condizioni di sicurezza alimentare e di vita.

Il rischio della tempesta perfetta

Oggi, dunque, non basta affrontare le emergenze umanitarie: vanno risolte le cause sociali ed economiche che sono alla base dei conflitti. Le stime sul cambiamento climatico non sono rosee ed è sempre più reale il rischio che i processi di desertificazione e di erosione delle terre fertili si intensifichino, soprattutto in Africa e in Medio Oriente. Allo stesso tempo, la crescita della popolazione e l'aumento della domanda alimentare globale richiederanno maggiori risorse naturali e terreni fertili per le attività agricole. E, secondo il rapporto, la combinazione di questi fattori di crisi potrebbe generare un'autentica tempesta perfetta nelle aree più fragili del pianeta.