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Libia, le ragioni dell’assalto al parlamento di Tobruk

Scenario arduo per il paese nordafricano: le sommosse si sono allargate alle principali città e i manifestanti reclamano a gran voce nuove elezioni. Intanto Tripoli ordina l’arresto per l’ambasciatore libico in Italia

In Libia persiste il caos. La situazione raggiunge il culmine con l’assalto del primo luglio al parlamento di Tobruk. Svariati video, apparsi sui social, mostrano le fiamme che si propagano fino ai piani alti. C’è una macchina movimento-terra che sfonda le cancellate. I manifestanti si introducono all’interno dell’edificio e - riportano le agenzie - lo saccheggiano.

È la rivolta sociale. Il popolo libico invoca nuove elezioni e la fine della transizione. Con indosso giubbotti gialli i manifestanti invadono anche le strade di Bengasi, Sirte e Tripoli. La capitale ribolle. È a Tripoli che nel 2021 si è insediato il “governo di unità nazionale”, grazie agli accordi di Ginevra sotto l’occhio vigile dell’Onu.

Per le strade del Paese c’è chi brandisce le bandiere del regime del colonnello Muammar Gheddafi, ucciso nel 2011, grazie all’intervento della Nato che liberò il paese nordafricano appoggiando i ribelli.

Stando alle dichiarazioni del presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, Ageela Saleh, sarebbero “i sostenitori dell’ex regime” ad aver preso d’assalto la sede del parlamento, lo riportano i media locali. “Ci occuperemo di coloro che hanno bruciato la sede del parlamento secondo la legge e nessuno sarà risparmiato”. Saleh non sembra temere le elezioni e anzi attacca il governo di Tripoli, che ancora non ha portato il Paese al voto: "Conosco l'entità della sofferenza dei libici. La Banca centrale libica (Cbl) non ha liquidato fondi al governo di Fathi Bashagha appena approvato e inoltre gli stipendi non sono stati pagati”, ha detto Saleh ai media locali.

I manifestanti che hanno appiccato le fiamme a Tobruk, lamentano il carovita, la mancanza di carburante e le continue interruzioni dell’energia elettrica, protrattesi anche per 18 ore. Invocano le urne a ragione: perché le elezioni vengono rimandate continuamente già da più di sette mesi. E chiedono una nuova classe politica.

Se la calma sembrava tornata per le strade del Paese già il giorno successivo all’attacco al parlamento, non si escludono però altre sommosse.

Il paradosso libico è evidente. Ricco di petrolio e - prima della guerra - uno dei paesi africani con il maggior livello di benessere pro capite, la Libia si è trasformata in un porto per i migranti del Mediterraneo. È dalla Primavera araba che la Libia non ritrova l’ordine che il regime di Gheddafi sapeva garantire.

Tra richieste di nuove elezioni e inviti alla calma

Quanto alle strategie di politica estera, il governo di Tripoli ha stretto accordi militari con la Turchia già nel 2019. Così Erdogan cerca di allungare la sua sfera di influenza sul Paese. E Mario Draghi, dalla recente visita ad Ankara, gli offre una spalla: “La pace e la stabilizzazione della Libia sono obiettivi prioritari di Italia e Turchia. Abbiamo convenuto di fare tutto il possibile per riportare pace e stabilità in Libia. Il nostro coordinamento diventerà più stretto in futuro”, ha detto il presidente del Consiglio a margine dell’incontro bilaterale delle scorse settimane.

Dietro il governo di Tobruk, posto appositamente a qualche centinaia di chilometri da Tripoli, invece c’è il maresciallo Kahlifa Haftar, a sua volta appoggiato da Arabia Saudita ed Egitto. Riflettori puntati anche sulla Russia. Stimano gli analisti, che Putin abbia inviato almeno 1.600 “mercenari” della Wagner proprio nell’oriente del Paese.

La Libia è separata in due, con Tobruk che riconosce un esecutivo non accettato dalla comunità internazionale, la quale a sua volta sostiene il governo unionista di Tripoli. D’altro canto l’appoggio alle rivolte di questi giorni, da parte di Tripoli, è chiaro. Secondo un lancio di agenzia, il premier libico ad interim, Abdel Hamid Ddeibah, “vorrebbe aggiungere la sua voce” a quella dei manifestanti, indicendo le nuove elezioni al più presto. “Tutti a casa, si va alle urne”, ha detto Ddeibah.

Anche Stephanie Williams, vice capo della Missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia, ha dichiarato alla Bbc che nonostante “la violenza sia inaccettabile”, le rivolte rappresentano un invito chiaro alla classe politica da parte della popolazione, per mettere da parte le divisioni e andare al più presto alle urne.

L’invito alla calma è di Antonio Guteress, segretario generale dell’Onu, che tramite un post del suo portavoce sui social, ha chiesto ai manifestanti di evitare “violenze” e alle forze dell’ordine di “moderarsi” nella repressione delle rivolte.

L’ambasciatore americano in Libia, Richard Norland, citato dal Guardian, ritiene che nessuna forza politica controlli legittimamente l’intero Paese e aggiunge che qualsiasi “forzatura” e “soluzione unilaterale” porterebbe a inasprire fatalmente la situazione.

In contemporanea all’attacco al parlamento di Tobruk, il governo di Tripoli ha ordinato l’arresto del suo ambasciatore in Italia, Omar al Tarhouni. Un comunicato della Procura Nazionale sembra puntare il dito sul diplomatico, accusandolo di “abuso di potere, per mettere a rischio volontariamente denaro pubblico, e coinvolgimento in guadagni illeciti”. L’indagine sembra interessare la vendita di materiali medici per tornaconto personale.