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Il rinnovato attivismo dell’Italia sulla Libia

Il viaggio del premier Draghi a Tripoli è un segnale importante per recuperare un’influenza nella regione che negli ultimi anni si era appannata. Ma nei piani di Roma si mettono di traverso le mire della Turchia e l’incidente diplomatico con Ankara e con il presidente Erdogan

Il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha scelto la Libia per la sua prima visita ufficiale all’estero, incontrando il 6 aprile il primo ministro libico Abdulhamid Dabaiba, che guida il governo di unità nazionale formatosi a inizio marzo dopo anni di guerra civile.

La priorità data alla Libia non è frutto di un caso. Si tratta di un segnale importante dell’Italia verso la Libia ma anche nei confronti degli altri Paesi della regione, così come verso l’Europa e la comunità internazionale, oltre che nei confronti delle nostre imprese interessate a investire.

Nello scacchiere libico, tuttavia, l’Italia deve recuperare il terreno perso, in termini di influenza, a vantaggio della Turchia, schierata (anche militarmente) dalla parte del governo di unità nazionale, quindi sullo stesso fronte dell’Italia, in contrapposizione soprattutto alle forze del generale Khalifa Haftar, sostenute da Russia, Egitto ed Emirati Arabi.

Tripoli chiede di riattivare l’accordo del 2008

“È un momento unico per la Libia”, ha detto Draghi arrivando a Tripoli, ricordando che “c’è un governo di unità nazionale legittimato dal Parlamento che sta procedendo alla riconciliazione nazionale. Il momento è unico per ricostruire quella che è stata un'antica amicizia”.

Nelle dichiarazioni congiunte con il primo ministro Dabaiba, Draghi ha sottolineato come la riconciliazione sia “un requisito essenziale per procedere con la collaborazione è che il cessate il fuoco continui. C’è la volontà di riportare l'interscambio economico e culturale ai livelli di 5-6 anni fa. È un momento unico per guardare al futuro e per muoversi con celerità e decisione. C'è la volontà di riportare quello che era l'interscambio culturale ed economico con la Libia ai livelli di cinque, sei, sette o otto anni fa e la conversazione di oggi mi assicura che si vuole anche superarlo”.

Draghi ha definito l’incontro “straordinariamente soddisfacente. Abbiamo parlato – ha aggiunto – della cooperazione in campo infrastrutturale, energetico, sanitario e culturale. L'Italia aumenterà le borse di studio per gli studenti libici e l'attività dell'Istituto di Cultura italiano. Si vuole fare di questa partnership una guida per il futuro nel rispetto della piena sovranità libica”. Sul piano dell'immigrazione “noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi e nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia. Ma il problema non è solo geopolitico, è anche umanitario e in questo senso l'Italia è uno dei pochi Paesi che tiene attivi i corridoi umanitari”.

Il premier Abdulhamid Dabaiba ha invece voluto mettere l’accento su “una delle questioni più importanti”, cioè quella di “riattivare è l’Accordo di amicizia del 2008, a cominciare dalla costruzione dell'autostrada. Prevediamo un aumento della collaborazione nell'elettricità e nell'energia”.

Riaffermare una leadership oscurata

Come già detto, questa è la prima visita all'estero del presidente del Consiglio Draghi. Ed è già in questo dato che emerge l'obiettivo della missione del premier nella Tripoli che torna a vedere la stabilità politica: riaffermare una leadership italiana oscurata, negli ultimi mesi, dall'egemonia turca in Tripolitania e da quella russa in Cirenaica.

Quello italiano è un ruolo che può contare anche sulla sponda della nuova amministrazione americana, tornata, dopo l'era Trump, a guardare all'Europa e al Mediterraneo con rinnovato interesse.

La visita di Draghi, spiegano fonti vicine al dossier, “ha innanzitutto un valore simbolico”. La Libia, sia pur a fatica, è tornata a rimettersi in carreggiata in direzione delle elezioni politiche da tenersi il prossimo dicembre. Ha un primo ministro riconosciuto in Tripolitania e Cirenaica e votato con un cospicuo consenso politico.

E per l’Italia dopo un periodo di assenza, tornano ad aprirsi spiragli diplomatici (come l’apertura del consolato a Bengasi), economici e anche sulla cooperazione sui migranti.

Le opportunità per le imprese italiane ci sono tutte. Parlando al quotidiano La Repubblica, lo scorso 9 aprile, il governatore della banca centrale libica, Sadiq al-Kabir, ha detto: “chi si muove per primo vince. Per chi vuole lavorare con questo Paese ricchissimo di risorse è il momento di prendere la valigia e venire subito in Libia. Abbiamo pochi abitanti – ha aggiunto – ed enormi risorse non usate. Dipendiamo da gas e petrolio. C’è grande interesse, gli uomini d’affari dall’Europa e da Malta stanno già arrivando. Nonostante la pandemia, il processo è in moto”.

L’incidente diplomatico tra Roma e Ankara

Chi si è mosso subito, non tanto con la forza del danaro ma con quella dei cannoni, è stata la Turchia. Ankara ha infatti difeso Tripoli dall’avanzata del generale Khalifa Haftar, sostenuta dai russi. Ora, dopo l’incidente diplomatico occorso tra Italia e Turchia dopo che Draghi ha definito “un dittatore” il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, Ankara vuole giocare sul fronte libico la sua partita con Roma.

Dal 12 al 15 aprile il premier libico Dbeibah assieme a 13 ministri, al capo di Stato maggiore dell’esercito e il governatore della Banca centrale al-Kabir sono nella capitale turca per un vertice ai massimi livelli con Erdogan. A quanto filtra da ambienti governativi l’incontro “programmato da tempo” è stato “messo in agenda negli ultimi giorni”.

Secondo gli analisti, questo vertice convocato in modo così repentino è un avvertimento all’Italia: la Turchia mette sul piatto la sua enorme influenza conquistata sul campo di battaglia per costringere Roma a ritrattare le accuse a Erdogan, con l’implicita minaccia di ostacolare i piani italiani in Libia.

La posta in gioco non è solo economica. In ballo c’è anche il controllo delle migrazioni, la grande arma che Erdogan già usata sul fronte orientale dove (sovvenzionato dai soldi dell’Ue) ospita tre milioni di profughi siriani diretti in Europa.