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India, non si arresta la rabbia dei contadini

Decine di migliaia di agricoltori indiani protestano dallo scorso novembre contro la riforma del mercato dei prodotti agricoli voluta dal premier Modi, e varata senza alcuna trattativa con le parti sociali

Dallo scorso novembre, in India, decine di migliaia di agricoltori sono accampati alla periferia della capitale Nuova Delhi: chiedono l’abrogazione delle riforme per liberalizzare il mercato dei prodotti agricoli. A essere contestate, in particolare, sono tre leggi che hanno l’obiettivo di liberalizzare l’agricoltura, finora regolata dallo Stato per tutelare i produttori dalle fluttuazioni del libero mercato). La riforma prevista dal governo guidato dal primo ministro Narendra Modi getta le basi per il contract farming (o contratto di coltivazione), un accordo tra il produttore e l’acquirente in cui il secondo ha un potere economico superiore a quello del primo; mentre finora gli agricoltori hanno venduto ai mercati all’ingrosso controllati dal governo o ai mercati rurali a prezzi minimi garantiti. In più, le nuove misure andrebbero a sottrarre potere normativo alle amministrazioni dei singoli Stati. Tuttavia, nel varare la riforma, il governo non si è mai consultato con le parti sul contenuto delle proposte prima di convertirle in legge, a partire dal giugno del 2020, attraverso una serie di ordini esecutivi, senza aspettare che il parlamento esaminasse le proposte.

La protesta prosegue

L’approvazione delle tre leggi che compongono la riforma (Farmers' Produce Trade and Commerce act, Farmers Empowerment and Protection Agreement on Price Assistance and Farm Service act e Essential Commodities act) hanno provocato la rabbia dei contadini che, come detto, hanno iniziato a manifestare a partire da novembre. Attualmente decine di migliaia di poliziotti sono dispiegati in tutta l’India per fronteggiare le nuove proteste pianificate dagli agricoltori. Dieci stazioni della metropolitana sono state chiuse nel centro della capitale indiana, dove il mese scorso un raduno di trattori è sfociato in violenti scontri, e migliaia di agenti hanno posizionato sbarramenti e posti di blocco ai principali incroci. I sindacati degli agricoltori hanno invitato ad attuare blocchi stradali di protesta in tutto il Paese. Secondo gli agricoltori, i cambiamenti significano che il settore agricolo sarà rilevato dai principali conglomerati. Mentre le autorità hanno aumentato la pressione sulle proteste, tagliando internet e le forniture d'acqua, i contadini hanno promesso di continuare la loro campagna per altri mesi.

Un’inefficienza che parte da lontano
Sebbene da decenni ci sia una continua e massiccia urbanizzazione, il 60% del miliardo e 300 milioni d'indiani continua a vivere nei circa 640mila villaggi agricoli del Paese. Ugo Tramballi senior advisor (India desk) dell’Ispi, ricorda che, come sosteneva il Mahatma Gandhi, l’India non è Calcutta o Bombay. “L’India reale, la mia India, è nei suoi villaggi”. Il Gandhi aveva predetto la crescita delle metropoli e la grande crisi del mondo contadino, ancor prima che nascesse l'Unione Indiana, nel 1947: “L'urbanizzazione sarà una lenta ma sicura morte dei villaggi e dei contadini”. Le manifestazioni contro le riforme imposte dal governo Modi “lo sciopero organizzato più imponente della storia umana”, dicono gli oppositori del premier sono, secondo Tramballi, “l’atto finale e dirompente di un problema mai risolto”.
Tramballi, ripercorre le cause dell’inefficienza del settore agricolo indiano “Negli anni '60 – spiega – c’era stata la Rivoluzione Verde di grano e riso; nei '70 la Rivoluzione Bianca della produzione di latte; poi la Rivoluzione Blu della pesca. Ma dopo qualche anno di crescita e di speranze, dagli anni '80 è diventato un problema sempre più grave: il 60% della popolazione vive di agricoltura ma il settore garantisce solo il 15% del Pil. E una tragedia: il tasso di suicidi fra i contadini è altissimo. Nel 2019 i casi sono stati 10.281”.
La crescita annua prestabilita del 4% non è mai stata raggiunta. Ogni tentativo di soluzione partiva dal sistema distributivo dello Stato e non era mai fondato sulla constatazione che l’offerta ignorasse i mutamenti della domanda. “Se in Cina l'agricoltura aveva stimolato la crescita del Paese – spiega Tramballi – in India quest'ultima svelava l'inadeguatezza del sistema agricolo. L’offerta di grano e riso continuava a essere massiccia”. Ma la società sempre più affluente chiedeva beni più sofisticati, più deperibili e che, più di grano e riso, richiedevano una filiera: un'industria di trasformazione e una catena distributiva. Una rete industriale che il sistema agricolo non aveva i mezzi di creare nemmeno con le sovvenzioni statali ma che l'investimento privato può realizzare.
Il problema secondo l’analista dell’Ispi non sono tanto le riforme “ma quali riforme il governo ha presentato, e come lo ha fatto. Nello stile verticistico di Narendra Modi, aggravato dal plebiscito elettorale del suo secondo mandato, nel 2019, le tre leggi non sono il frutto di un confronto fra le parti; non offrono garanzie ad agricoltori incapaci di reggere la concorrenza delle corporations né al posto di lavoro di milioni di braccianti già mal pagati”.
Tramballi infine ricorda come la Corte Suprema abbia cercato di favorire un confronto, ritardando di 18 mesi l’entrata in vigore delle leggi. Presentando il Bilancio il primo di febbraio, la ministra delle Finanze Nirmala Sitharaman ha annunciato una loro revisione. Ma dopo il tentativo del governo d'imporre le riforme, il mondo agricolo ha rifiutato: “i contadini – dice – lasceranno le piazze solo quando il governo avrà ritirato le leggi”.