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L’asse economico mondiale si sposta in Asia

A metà novembre 15 Paesi asiatici e oceanici hanno siglato il Rcep, il più grande patto commerciale al mondo, che vale il 30% dell’economia e della popolazione globale e coinvolgerà 2,2 miliardi di consumatori. Ecco quali scenari apre, secondo l’analisi dell’Ispi

A metà novembre 15 Paesi asiatici si sono riuniti in una cerimonia virtuale a Hanoi per firmare il Partenariato economico globale regionale (Rcep). Si tratta del più grande accordo commerciale multilaterale al mondo, in grado di rivoluzionare la geopolitica della regione e i rapporti tra gli Stati dell’Est asiatico. A sottoscriverlo sono stati i 10 Paesi dell’Asean più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, ratificato il 15 novembre dopo otto anni di negoziati. Un accordo che segna nuove prospettive per lo sviluppo economico della regione, ne promuove l’integrazione e segnala una sostanziale perdita di peso strategico nell’area degli Stati Uniti, ormai estranei ai giochi dei grandi trattati multilaterali di libero scambio nel quadro della presidenza Trump.
Secondo gli analisti dell’Ispi, Alessandro Gili e Giulia Sciorati, la tempistica dell’accordo è indicativa dei pesanti effetti della pandemia sull’economia e sulle relazioni internazionali. “È stata infatti la spinta della profonda crisi economica globale”, che vede l’economia cinese come l’unica al mondo che continua a crescere, “a riuscire a mettere d’accordo l’Asia orientale, quella del Sud-Est e il Pacifico”. In questo senso, il Rcep rappresenta “un primo passo verso quella tendenza alla regionalizzazione degli scambi che era già entrata nei dibattiti internazionali fin agli albori della guerra commerciale”.

Un possibile effetto di 209 miliardi sul Pil mondiale

Gli analisti dell’Ispi evidenziano alcuni dati per comprenderne l’importanza strategica: “il Rcep creerà un’area di cooperazione economica di 2,2 miliardi di persone, che producono il 30% del Pil e il 27,4 % del commercio globali. Il gruppo dei Paesi membri copre il 50% della produzione manifatturiera globale, il 50% della produzione automobilistica e il 70% di quella elettronica. E il blocco potrebbe divenire ancora più importante qualora l’India, ritiratasi dalle negoziazioni nel 2019, decidesse di aderirvi in futuro”. L’area attualmente attrae il 24% degli investimenti diretti esteri ed è la più dinamica a livello internazionale, grazie anche a una strategia di successo nel contenimento della pandemia da coronavirus. Si stima che l’accordo possa incrementare il Pil mondiale di 209 miliardi di dollari al 2030 e il commercio internazionale di 500 miliardi entro la stessa data. Nella regione l’impatto stimato secondo l’Unctad è una crescita del Pil dello 0,2% al 2030 e una crescita delle esportazioni del 10% entro il 2025. Entro il 2030 la Cina si avvantaggerà di un maggior reddito legato al Rcep (100 miliardi di dollari), seguita da Giappone (46 miliardi di dollari), Corea del Sud (23 miliardi di dollari) e Sud-Est asiatico (19 miliardi di dollari). Essendo esclusi dall’accordo gli Stati Uniti rinunceranno a circa 131 miliardi di dollari di guadagno stimato, mentre la decisione dell'India di non aderire comporterà la rinuncia a circa 60 miliardi di dollari di reddito aggiuntivo. Inoltre, Secondo gli analisti dell’Ispi, il Rcep eliminerà tra l’85 e il 90% delle tariffe al commercio interne alla nuova area.

L’uscita dell’India e la centralità della Cina

La Cina spingeva da tempo per una più forte integrazione economica e commerciale, insistendo per un maggior coordinamento tra la Belt and Road Iniziative (Bri) cinese e il Master Plan on Asean Connectivity (Mpac) 2025. La maggiore influenza commerciale, finanziaria e di investimenti della Cina nella regione attraverso l’accordo potrebbe incrementare altresì il peso politico di Pechino nell’area, soprattutto in un’ottica di competizione con gli Stati Uniti. “L’uscita di Pechino dall’emergenza sanitaria ed economica in anticipo rispetto al resto del mondo, con un tasso di crescita del Pil dell’1,8%, nel 2020 e addirittura dell’8% nel 2021, potrebbe certo rendere i Paesi Asean più dipendenti dalle esportazioni e dagli investimenti provenienti dall’ingombrante vicino”, osservano Gili e Sciorati, ricordando come il peso della Cina nel Rcep, aumentato ulteriormente dopo l’uscita dell’India dalle negoziazioni per l’accordo, sia infatti uno dei maggiori elementi di criticità. E la diffusione, nel medio e lungo periodo, degli standard cinesi nella regione farebbe incrementare anche il soft power di Pechino.
Come accennato, il grande assente dal Rcep è l’India, che si era ritirata dai negoziati già nel 2019. New Delhi aveva deciso di auto-escludersi dall’accordo poiché temeva che, con l’abolizione di gran parte delle tariffe doganali, il mercato indiano sarebbe stato invaso da prodotti a basso costo stranieri, di fatto andando a colpire i piccoli e medi imprenditori che solo nel 2019 contavano più di 63 milioni tra attività rurali e urbane. Secondo gli analisti dell’Ispi, tuttavia, “l’assenza dell’India non rischia solo di avere un effetto negativo sull’economia nazionale e sulle relazioni con la Cina, ma rappresenta anche un fattore di rischio per i Paesi che partecipano al Rcep poiché fa sì che venga meno un contraltare di peso all’ingombrante economia del Dragone. Una decisione, quella di Delhi, che in ogni caso renderà più complessi i target di crescita economica nel medio e lungo termine e più ardua l’acquisizione della tecnologia necessaria per sostenere lo sviluppo economico del Paese”.

Vantaggi o svantaggi per l’Italia?

Secondo Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia “è evidente il rischio di una progressiva emarginazione dell’Europa che stenta a realizzare una piena unificazione ed anche per questo rischia di trovarsi sempre più isolata a livello globale. Il neonato patto, però, rappresenta anche un’opportunità per il nostro Paese. Secondo Filiera Italia, infatti, “le nostre eccellenze alimentari in un sistema così semplificato potrebbero trovare meno ostacoli al momento dell’esportazione e della successiva circolazione in un mercato che ad oggi vale circa 2,8 miliardi per l’agroalimentare italiano”.