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Diversità come motore del successo

Un’azienda più inclusiva può migliorare i propri risultati. Ma per superare gli stereotipi di genere, età, abilità, serve uscire dalla tradizione e dalle abitudini e aprirsi a un approccio che valorizzi l’individualità. Spesso si tratta di adattare i modelli operativi e sperimentare nuovi schemi

Riconoscere la diversità per cogliere l’opportunità dell’inclusione: è un lento percorso verso il cambiamento, spinto spesso da obblighi normativi ma anche da una sensibilità che sta cambiando di pari passo con l’evoluzione della società. Un esempio? Oggi i ragazzi, nella loro maggioranza, vivono l’uguaglianza e non percepiscono la differenza di genere o di razza come accade invece per le generazioni più anziane, vissute in una società certamente diversa. La parità dei diritti è una conquista che cresce nel quotidiano, ma che ha ancora bisogno di una spinta. Da queste considerazioni è nato nel 2015 il Dive In Festival, iniziativa di confronto su diversità e inclusione – promossa dagli assicuratori Lloyd’s di Londra con un focus particolare sulle imprese del settore assicurativo – che si è poi allargata a livello mondiale e ha coinvolto nell’edizione 2020 appena conclusa 35 paesi sul tema “Local Voice, Global Impact”. In Italia è stata l’occasione di un confronto tra esperti di diversity&inclusion, gestori delle risorse umane, associazioni, esponenti della consulenza e delle imprese, coinvolti sul tema da un gruppo di società afferenti al settore assicurativo (Anra, Aon, Axa Italia, Axa Xl, Assiteca, Chubb, Generali Italia, Lloyd's, Marsh, Pca Broker e Willis Towers Watson).

Una cultura che evolve lentamente
Tra i promotori dell’iniziativa anche Valore D, società che vuole promuovere la diversità e l’inclusione nelle imprese e che ogni anno monitora i risultati delle diverse iniziative intraprese in un panel di aziende. Secondo Ulrike Sauerwald, head of research and knowledge management di Valore D, è ancora necessario lavorare molto sulla cultura aziendale andando a incidere su cliché e abitudini che rallentano il cambiamento. Parlando di differenze di genere, Sauerwald ha citato uno studio di McKinsey sulle donne nel mondo del lavoro che mostra come dal 2015 è aumentato l’impegno delle aziende verso la diversità di genere (definita una priorità per il 74% nel 2015 e per l’87% nel 2019), una tendenza confermata anche tra i manager (da 42% a 59%) e i dipendenti (da 33% a 43%).
Che uguaglianza non sia solo questione di numeri o di diritti è la sintesi dell’intervento di Paola Profeta, direttrice del Msc Politics and Policy Analysis dell’Università Bocconi, che sulla base degli studi realizzati a livello globale ha confermato la concretezza dei benefici economici e sociali della parità di genere. Si tratta in ogni caso di un percorso da completare: secondo il Wef, tra i 153 paesi analizzati sul gap di parità tra uomini e donne, risulta che nei casi migliori l’obiettivo è raggiunto all’80%; l’Italia in questa classifica si colloca al 76° posto e limitando l’osservazione al solo ambito economico è al 117°. Gli studi condotti dal gruppo di Profeta hanno confermato che l’uguaglianza di genere non è solo questione di diritti individuali alla parità (peraltro inserita tra i 17 obiettivi Onu per lo sviluppo sostenibile), ma anche un buon investimento sociale oltre che aziendale, perché è motore di crescita economica e di sviluppo. In Italia le donne sono il 70% dei laureati, controllano la maggior parte delle attività di consumo e anche di risparmio (quella che viene chiamata womenonomic); i paesi con più donne che lavorano hanno anche un Pil più elevato - in Italia il lavoro femminile influenza l’11% del Pil, e una maggiore crescita demografica naturale.

Il linguaggio è il primo veicolo di inclusione
Una parte del cambiamento è in qualche modo forzata dagli obblighi normativi e dalla necessità delle imprese di raggiungere obiettivi di sostenibilità, ma sempre più frequentemente le imprese sono disposte a riconoscere che la diversità va coltivata perché porta con sé il concreto valore aggiunto di un confronto tra esperienze diverse. Per raggiungerlo c’è però l’esigenza di creare all’interno dell’impresa un clima inclusivo, dove ogni persona possa condividere la propria esperienza e sia aperta a recepire quella degli altri.
È una questione di dialogo, di capacità di ascolto e anche di sforzo nell’adottare atteggiamenti che siano inclusivi. Fondamentale a questi fini è l’attenzione al linguaggio, non tanto nella formalità dei generi quanto nel superare alcuni retaggi che si possono nascondere anche dietro la comunicazione più corretta.
Secondo Alexa Pantanella, esperta di comunicazione e fondatrice di Diversity & Inclusion Speaking, un uso consapevole del linguaggio è un impulso al cambiamento anche più forte della normativa perché condotto da ogni singolo individuo e non calato dall’alto. Il linguaggio inclusivo si basa sul dato di fatto che prima ancora dei generi esistono le persone, e che ogni caratteristica dell’individuo può attivare nell’interlocutore una proiezione mentale più vicina a uno stereotipo che al riconoscimento dell’individualità.
Uno degli stereotipi in questo senso è l’“ageismo”, cioè la discriminazione sulla base dell’età, spesso attivata inconsapevolmente con associazioni quali “giovani = innovazione” e “anziani = lentezza”: al giovane talento si può contrapporre l’esperienza dei più maturi, ma anche l’associazione con l’innovazione è tutta da verificare se è vero che negli ultimi anni i due terzi di coloro che hanno depositato brevetti hanno un’età compresa tra i 45 e i 65 anni, e che, secondo quanto pubblicato dalla Harward Business Review, solo il 15% delle startup sono fondate da persone sotto i 30 anni. Un linguaggio che sia attento a ogni singola individualità supera inevitabilmente gli stereotipi e contribuisce a creare un ambiente più inclusivo, in cui ogni persona si sente valorizzata e riconosciuta per le proprie qualità applicate nel mondo del lavoro.

Disabilità tra percezione e carriera
Includere una persona disabile in azienda è un’altra delle sfide agli stereotipi e un invito a un approccio diverso nella fase di selezione del personale. Emanuele Serrelli di Wise Growth, mette come punto di partenza quanto contenuto nella “Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità, e della salute – ICF”, un documento dell’Oms che dal 2001 definisce la disabilità non più come una caratteristica dell’individuo ma come il prodotto dell’interazione della persona con l’ambiente in cui si trova. Da un punto di vista dell’inclusione, e quindi della partecipazione e dell’autonomia, si tratta di passare da una nozione di disabilità come “bagaglio” a una nozione di gap rispetto all’ambiente in cui la persona si muove, e verso cui, dall’altra parte, la persona stessa deve avere un approccio di volontà partecipativa. L’errore da evitare nel selezionare persone con disabilità è proprio partire da questo approccio, e quindi di trovarsi a “dover collocare” il nuovo arrivato in un determinato contesto senza valutare le sue caratteristiche e il suo percorso professionale allo stesso modo in cui si valutano quelli dei colleghi normodotati.
Valeria Pincini, che si occupa per Jobmetoo del recruiting nelle aziende di persone appartenenti a categorie protette, ritiene che ancora oggi le imprese compiano alcuni errori nella selezione, frutto dell’applicazione dei criteri ordinari del reclutamento. Il limite di base, che spesso è all’origine dell’inserimento poco soddisfacente delle persone, è che il bacino di selezione di individui con disabilità è necessariamente molto più ristretto. Ciò implica che la scelta vada portata avanti in collaborazione stretta tra l’Hr, che è responsabile del processo di assunzione, e il line manager che gestirà la risorsa in modo che venga inserita in maniera efficace. Non solo: nel selezionare il soggetto sarà opportuno concentrarsi parzialmente sul suo percorso formativo e professionale, ma avere una visione più ampia delle sue caratteristiche e degli skill che possono essere attrattivi per l’azienda, concentrandosi sul suo potenziale di crescita. In questo senso può risultare più agevole aprire ogni ricerca alla possibilità di includere una persona con disabilità, invece che agire al contrario e cercare “un posto dove collocarla”. È una questione di volontà nell’ampliare la visione che porta direttamente all’obiettivo di essere più inclusivi.