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Petrolio, un accordo storico che non convince

L’Opec+ il giorno di Pasqua ha raggiunto un’intesa per il taglio della produzione di quasi il 10%, ma i mercati restano scettici: restano molti nodi irrisolti. Così il prezzo del barile è finito sotto lo zero

È stato definito un accordo storico, quello raggiunto il 13 aprile scorso all’Opec+, il tentativo di alleanza formale tra Opec e tutti quegli altri membri esterni, guidati dalla Russia, che portano avanti una politica orientata, al momento, anche sui tagli di produzione del petrolio. La trattativa è riuscita a stabilire un punto comune sulla riduzione di quasi il 10% delle forniture petrolifere globali. Un’intesa che però non ha convinto del tutto i mercati: sebbene rappresenti un passo in avanti positivo e metta fine alla guerra dei prezzi fra Arabia Saudita e Russia, non è stata ritenuta adeguata a far fronte al crollo della domanda a causa del coronavirus. Le quotazioni del Wti sono di nuovo affondate mentre l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) descriveva i dettagli del piano concordato da Opec Plus e G20, ammettendo che “non esiste nessun accordo fattibile che possa ridurre l’offerta abbastanza da compensare una tale perdita di domanda nel breve periodo”. Questo dopo una iniziale fiammata seguita all’annuncio dell'accordo, che aveva mostrato rialzi di Wti e Brent nell’ordine dell’8%.

Quale intesa è stata raggiunta
Al termine di una serrata trattativa e di ripetuti colpi di scena, il cartello dei paesi produttori e i loro alleati, inclusa la Russia, hanno raggiunto un accordo per ridurre la produzione di 9,7 milioni di barili al giorno in maggio e giugno, pari a circa il 10% delle forniture globali, e per continuare riduzioni fino all’aprile 2022 nel tentativo di stabilizzare i mercati energetici. L’intesa, siglata nel giorno di Pasqua, ha visto Donald Trump giocare il ruolo di mediatore fra Riad e Mosca e tendere la mano al Messico, Paese a lungo criticato dal presidente americano per gli immigrati. Con una girandola di telefonate il presidente Usa è però riuscito a rompere lo stallo, convincendo l’Arabia Saudita ad accettare un compromesso inizialmente bocciato. L’accordo raggiunto prevede che il Messico riduca la sua produzione di 100mila barili al giorno, molto meno della quota che gli sarebbe spettato. A colmare il gap fra il taglio accettato dal Messico e quello che avrebbe dovuto effettuare sulla carta sono gli Stati Uniti che, insieme al Brasile e al Canada, ridurranno complessivamente la loro produzione di 3,7 milioni di barili.

Più economico dell’acqua
La più evidente reazione dei mercati, a cui tutti hanno guardato con non poco stupore, è stata il tracollo senza precedenti del prezzo della materia prima, affondato sotto allo zero. E anche questo è un fatto di portata storica. Nello specifico, ad andare in negativo è stato il prezzo del West Texas Intermediate (Wti), principale indice del prezzo del petrolio negli Usa, che nella giornata di lunedì 20 aprile ha toccato i -40 dollari al barile, prima di recuperare. In pratica, i venditori di petrolio erano disposti a pagare pur di disfarsi delle loro scorte. Diversi i fattori che hanno contribuito a questo tracollo, tra cui i problemi tecnici legati allo stoccaggio delle scorte: molto banalmente si sta esaurendo lo spazio per conservare combustibile di cui, in questa epoca di pandemia globale, non c’è domanda: aerei, auto e fabbriche sono ferme. Ma un’altra probabile ragione alla base del calo risiede nel rischio di credito: con la preoccupazione che ha colpito il mercato, gli investitori hanno iniziato a sbarazzarsi del petrolio.

Quali sono i dubbi sull’accordo
Nonostante la portata storica, l'accordo non convince perché è ritenuto tardivo e non in grado di affrontare adeguatamente il collasso della domanda globale innescato dal virus, che ha ridotto i consumi del 30%. Con 187 Paesi nel mondo in lockdown, le prospettive del settore non possono comunque che essere cupe, e infatti la stima è che su tutto il 2020 il calo della domanda sarà di 9,3 milioni di barili al giorno, il 9-10% in meno rispetto ai livelli degli anni scorsi. A questo si aggiunge che, secondo gli analisti, l’intesa non entrerà in vigore fino a maggio, consentendo di fatto alle forniture di inondare il mercato per un altro mese. Secondo Goldman Sachs, ad esempio, il taglio è “troppo ridotto e arriva troppo tardi per evitare lo sfondamento della capacità di stoccaggio”: il riferimento è al tentativo di un’azione globale semi-coordinata spinta dai timori di danni di lungo termine al mercato dell'energia, che mai si è trovato davanti a un crollo simile della domanda. Nei prossimi mesi il crollo della domanda si farà sentire: in aprile è previsto in 29 milioni di barili al giorno in meno, mentre in maggio potrebbe essere di 26 milioni di barili. La domanda mondiale, prima della pandemia, si aggirava sui 100 milioni di barili al giorno. Si tratta di livelli che non si vedevano dal 1995. Per tutto il secondo semestre dell’anno il calo sarà di 23,1 milioni di barili, e il recupero sarà graduale. A giugno mancheranno 15 milioni di barili al giorno. A dicembre si dovrebbe essere ancora sotto di 2,7 milioni di barili al giorno. Il calo preoccupa da vicino le società dello shale americano, fra le quali si teme un’ondata di bancarotte.