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Sud America, ritorno al passato

Saccheggi, città a ferro e fuoco, crisi istituzionali, tassi di inflazione alle stelle. Dal Cile all’Ecuador, dall’Argentina al Perù, il subcontinente sembra tornato a vivere i momenti bui di alcuni decenni fa

Le ultime parole famose le aveva pronunciate soltanto pochi giorni fa. Il presidente del Cile, Sebastian Piñera, aveva definito il proprio paese come “un’isola felice”. Un’isola che si è riscoperta triste e, soprattutto, piena di rabbia. Esattamente come i suoi vicini di Continente. In questo momento tutti gli Stati sudamericani stanno affrontando crisi di varia natura, di ordine sociale, politico o economico.

Cile, tra saccheggi e miliari nelle piazze
In Cile i disordini iniziati per protestare contro l’aumento del biglietto della metropolitana della capitale Santiago sono degenerati. Le proteste erano iniziate dopo l’annuncio di aumenti dei biglietti della metropolitana di Santiago fino a 831 pesos cileni (circa 1 euro), ma erano diventate particolarmente violente soltanto venerdì 18. I manifestanti, per la maggior parte studenti universitari e delle scuole superiori, avevano attaccato diverse stazioni della metropolitana della città accendendo fuochi, ribaltando auto parcheggiate e bruciando almeno un autobus. La polizia aveva risposto con cariche e gas lacrimogeni. Nella notte di venerdì 18 ottobre il presidente Piñera aveva dichiarato lo stato di emergenza a Santiago, garantendo poteri straordinari a polizia ed esercito e nominando il generale Javier Iturriaga responsabile delle operazioni: è la prima volta dalla dittatura di Augusto Pinochet che non veniva proclamato il coprifuoco.
Nella notte tra sabato 19 e domenica 20 ottobre sono stati dati alle fiamme stazioni e edifici. Durante il saccheggio di un supermercato, tre persone sono morte imprigionate dalle fiamme. In tutto sono stati saccheggiati una quarantina di supermercati e diversi altri negozi. La polizia ha reagito con una presenza massiccia nelle strade e finora ha arrestato circa 1.500 persone. Domenica 20 ottobre a Santiago si sono visti centinaia di soldati e mezzi blindati girare per le strade della città. Lo stato di emergenza e il coprifuoco sono entrati in vigore nelle prime ore di domenica anche nella provincia di Concepcion (regione di Biobio, nel sud) e nella regione centrale di Valparaiso dove i manifestanti hanno dato fuoco all’edificio di El Mercurio: il giornale, di orientamento conservatore, è il più antico del Cile.
Il presidente Piñera, ha per ora annunciato la sospensione dell’aumento delle tariffe e ha promesso un tavolo di confronto con le parti sociali. Tuttavia sono previste nuove manifestazioni per la giornata di lunedì 21 ottobre, e si temono altre violenze.

Ecuador, la (cara) benzina sul fuoco
Prima del Cile, un’altra nazione in ascesa dell’America Latina era piombata nel caos: l’Ecuador. Il Paese è stato teatro di una straordinaria ondata di proteste. Oltre 25mila persone, per lo più indigeni, per una settimana hanno messo a ferro e fuoco le strade della capitale Quito e delle altre principali città. Alla base del malcontento la decisione, da parte del governo, di rimuovere i sussidi al prezzo della benzina, rimozione che aveva fatto lievitare il costo del carburante. C’erano stati violentissimi scontri con i corpi antisommossa che a fatica avevano respinto diversi tentativi di assalto al Parlamento e allo stesso Palazzo presidenziale. La guerriglia era degenerata con saccheggi e devastazioni mentre gli indigeni prendevano possesso di Quito e si accampavano nei giardini e nelle piazze cucinando attorno ad enormi fuochi che con il fumo dei lacrimogeni rendevano spettrale tutta l’atmosfera. Durante uno degli assalti era stato bruciato l’archivio del fisco posto all’interno del ministero delle Finanze. Il presidente Lenin Moreno, inizialmente fuggito a Guayaquil, in Perù, aveva accusato l’opposizione e lo stesso ex presidente Rafael Correa, (rifugiato in Belgio), di guidare le proteste con il chiaro scopo di andare a nuove elezioni e prendere il potere.

Perù: tre ex presidenti in carcere, uno latitante, uno suicida
Come il Cile, anche il Perù è per lo più considerato come “un’isola felice”, tanto da essere inserito da molti economisti nella lista dei cosiddetti Next 11, le economie emergenti del futuro. Qui, tuttavia, la crisi è stata più istituzionale che sociale. All’inizio di ottobre il presidente della Repubblica, Martín Vizcarra ha infatti deciso di sciogliere il Parlamento, e disposto nuove elezioni legislative per il 26 gennaio 2019. L’annuncio è stato ricevuto come una dichiarazione di guerra dall’organo legislativo, controllato dai partiti di opposizione Fuerza Nueva (ispirato dall'ex presidente Alberto Fujimori) e Apra, che hanno risposto votando all'unanimità dei presenti una sospensione per “incapacità temporanea” di Vizcarra, ed eleggendo come nuovo capo dello Stato la sua vice, Mercedes Araoz Fernández. È l’ultimo capitolo di un conflitto istituzionale in atto da mesi, ed in cui Vizcarra ha cercato di costringere i parlamentari ad approvare riforme strutturali miranti soprattutto a fare fronte alla corruzione dilagante esistente nel Paese. I capi del comando congiunto delle Forze armate peruviane ed il comandante della Polizia nazionale hanno annunciato il loro appoggio al presidente Martín Vizcarra. Tutto questo accade in un paese in cui tre ex presidenti sono agli arresti, un quarto è latitante e un altro (Alan Garcia) è morto suicida.

Argentina, indicatori in crescita: povertà e l’inflazione
In questo scenario continentale, domenica prossima l’Argentina eleggerà il prossimo presidente della Repubblica. I dati economici del paese sono impietosi. Secondo i numeri diffusi dall’Indec (l’Istat argentino) a fine settembre, l’indice di povertà ha raggiunto il 35,4% della popolazione alla fine del primo semestre di quest'anno. Nello stesso periodo il livello di indigenza è salito al 7,7% dal 4,9% esistente alla fine del 2017. Con una popolazione stimata in circa 45 milioni di abitanti, i poveri nel Paese sudamericano sarebbero 15,9 milioni, mentre gli indigenti 3,4 milioni. Dai dati dell'Indec emerge anche che la povertà fra i minori di 15 anni è del 52,6% e del 42,3% nel segmento 15-29 anni, per scendere al 30,4% fra 30 e 64 anni, e al 10,4% fra gli ultrasessantacinquenni. Questo generalizzato aumento della povertà è dovuto, in base alle statistiche diffuse, alla caduta dell'economia argentina del 2,5% nell'ultimo anno, ad un aumento della disoccupazione al 10,6% e ad una inflazione che ha raggiunto il 55,8%. Per far fronte ai bisogni di cassa, già dal 2015 lo Stato argentino ha ricominciato a emettere bond accumulando un debito pubblico che a giugno valeva 337 miliardi di dollari, pari all’86% del PIL, contro il 53% registrato alla fine del mandato di Cristina Kirchner. Non stupisce dunque che l’attuale presidente, Mauricio Macri, molto probabilmente non sarà riconfermato: tutti i sondaggi danno in testa il peronista Alberto Fernandez, che in caso di vittoria riporterà alla Casa Rosada proprio Cristina Kirchner, questa volta come vice-presidente.

Venezuela, continua la catastrofe umanitaria
Che in Venezuela la situazione sia drammatica non è una sorpresa. Persino il governo del presidente Nicolás Maduro ha dovuto riconoscere pubblicamente che l'economia del Paese è in ginocchio. Il Pil del Venezuela ha registrato una nuova, ennesima contrazione (-26,8%) nel primo trimestre 2019, mentre continua la corsa dell’inflazione, ormai arrivata all’astronomico tasso del 4.679,5%. Come riconosciuto anche dalla Banca centrale di Caracas, il generale incremento del costo della vita è fuori controllo. Solamente nel mese di settembre 2019, i consumatori venezuelani hanno perso circa il 52,2% di potere d’acquisto. Ad agosto la variazione dei prezzi è stata del 34,6% e a luglio del 19,4%. Maduro ha deciso di aumentare il reddito minimo del 361% per portarlo a circa 15 dollari, che è sufficiente per acquistare circa quattro chili di carne. L’economia del paese è stata colpita nei settori più strategici, e infatti l’edilizia, la produzione manifatturiera e le istituzioni finanziarie e assicurative hanno subito una riduzione incredibile nel volume di affari, registrando un calo di oltre il 50%. Anche l'attività petrolifera (fonte del 96% del reddito del paese) ha subito una contrazione del 19,1% rispetto al primo trimestre del 2018. Questa situazione catastrofica non fa che aggravare la tragedia umanitaria. Negli ultimi due anni più di quattro milioni di venezuelani hanno lasciato il Paese, e il flusso di migranti e rifugiati ha registrato un nuovo picco nell’estate 2019. Anche se il cibo è ancora disponibile nei mercati, molte persone non possono permettersi di acquistarlo. La dieta si impoverisce, fino alla fame. Agli attuali prezzi di mercato lo stipendio medio di 15mila bolivar consente l’acquisto di circa tre pagnotte di pane. Mancano elettricità e carburante. Il sistema sanitario è al collasso. Molti medici hanno lasciato il Paese. La carenza di personale, insieme alla mancanza di medicine e attrezzature, ha portato alla sospensione di attività e alla chiusura di reparti ospedalieri. I programmi di vaccinazione e profilassi sanitaria sono crollati.