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La gravità della crisi libica

Sempre più vicina al conflitto civile, la Libia è sul punto di abbandonare definitivamente la strada di una soluzione politica negoziale. Gli scenari, gli investimenti in gioco e i rischi per il nostro Paese

La Libia sembra sprofondare nuovamente nel conflitto civile dopo che le forze agli ordini di Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica, hanno lanciato un’offensiva militare per prendere possesso della capitale Tripoli, controllata dalle milizie del Governo di Accordo Nazionale guidato da Fayez al-Sarraj e sostenuto dall’Onu. Gli scontri non si fermano e si è concretizzata una situazione d'emergenza, che avrà certamente conseguenze sui flussi migratori, così come sul riaffacciarsi dello spettro terroristico. L’Ispi, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, analizza la situazione nella zona del conflitto, la figura di Haftar, gli sponsor internazionali e il ruolo dell’Italia.

Haftar: il militare che vuole conquistare Tripoli
Una figura controversa ed enigmatica, la cui lealtà negli anni è stata molto difficile da interpretare. Nato in Cirenaica 75 anni fa, comandante dell'autoproclamato Esercito nazionale libico (LNA) e uomo forte delle autorità di Tobruk, Khalifa Haftar non è una figura nuova della scena politica e militare libica.
Membro del gruppo di generali che sotto la guida di Muammar Gheddafi prese il potere nel 1969, Haftar riuscì a raggiungere il rango di Colonnello prima di essere imprigionato in Ciad e poi esiliato negli Stati Uniti per oltre vent’anni a causa della umiliante sconfitta militare che le forze sotto il suo comando subirono nella guerra proprio contro il Ciad negli anni Ottanta. Nel 1993, fu condannato in patria, in contumacia, alla pena capitale per "crimini contro la Jamāhīriyya libica".
Tornato in Libia nel 2011 nell'anno della rivolta contro Gheddafi, diviene da subito uno dei principali comandanti dei ribelli nell'est. Nel maggio del 2014 ha lanciato da Bengasi l'Operazione Dignità contro le milizie islamiche, una "campagna contro i terroristi". Il 25 febbraio 2015, forte del sostegno politico e militare egiziano, viene nominato ministro della Difesa e capo di Stato Maggiore dal governo di Tobruk.

Il fallimento dell’accordo sostenuto dall’Onu
Dal suo ritorno in patria Haftar ha sempre cercato di legittimare la propria immagine soprattutto sul piano interno, presentandosi come l’uomo forte in grado di porre fine all’instabilità e ridare ai libici sicurezza e lavoro. Se, da un lato, Haftar sta sfruttando i canali mediatici e i social media per diffondere il proprio messaggio e ampliare la propria base di consenso, dall’altro l’estesa propaganda sull’offensiva militare ha avuto il preciso scopo di gonfiare le capacità delle proprie forze, mirando pragmaticamente ad una soluzione negoziata.
Ma quello che avrebbe dovuto essere un blitz armato da utilizzare in sede negoziale da parte di Haftar, sembra essere diventato “qualcosa che non sarà breve”: i morti sono in aumento e gli scontri si fanno sempre più cruenti. Haftar si troverà dunque ad affrontare una guerra differente da quella che si era immaginato marciando su Tripoli ma difficilmente farà marcia indietro.
L’offensiva ordinata nei giorni scorsi dal generale Haftar per assumere il controllo di Tripoli sembra di fatto sancire il definitivo fallimento dell’accordo politico (e di pace) – accordo sostenuto dall’Onu - tra il Congresso Generale Nazionale (GNC), con sede a Tripoli, e la Camera dei Rappresentanti stabilitasi a Tobruk, da cui però era originata una lunga fase di impasse politica. Quella stessa impasse politica che, va detto, nel corso degli ultimi tre anni e mezzo non è riuscita a ricomporre il quadro di profonda frammentazione istituzionale del Paese.

Gli sponsor internazionali di Haftar
Il ruolo di Haftar è cresciuto nel tempo grazie al supporto internazionale e gli incontri più o meno segreti che si stanno svolgendo in queste ore dimostrano che i rapporti con i vari governi europei stanno continuando. Infatti sin dal 2014 è stato sponsorizzato e aiutato da Egitto e Emirati ma poi anche da Russia e Francia, perché si presentava da un lato come protettore della Cirenaica dall’altro come campione della lotta agli islamisti, mentre ha avuto un minor peso nelle aree di interesse dell’Italia (Fezzan e Tripolitania, dove passano i flussi energetici e i traffici di esseri umani).
Parigi punta su di lui perché è consapevole che si tratta dell'unica figura in grado di avere dalla sua milizie armate spontanee. Ha anche il controllo logistico in aree ricche di pozzi di petrolio. Ne ha favorito le azioni nel Fezzan, per mettere in sicurezza i confini con Ciad e Algeria, altri due paesi strategici per Parigi. In particolare, l'interesse è quello di bloccare i progetti dei ribelli del Ciad che proprio dalle aree desertiche del sud della Libia dirigono i loro piani contro il presidente Déby, vicino alla Francia.

I rapporti con L’Italia
La Libia rappresenta una priorità di politica estera per il nostro Paese perché la sua instabilità ha ricadute importanti non solo sui flussi migratori ma anche per gli approvvigionamenti energetici. Per questo motivo, lo sforzo dei vari governi italiani nel farsi promotori di un’iniziativa inclusiva e negoziata sulla Libia è sempre stata una priorità di interesse nazionale.
Con la conferenza di Palermo del 12-13 novembre l’Italia ha tentato di ritagliarsi un ruolo da protagonista, e non da comprimaria, nella stabilizzazione di un teatro di conflitto che da troppi anni infuria a pochi chilometri dalle nostre coste. E’ assodato che i costi umani e materiali siano incalcolabili e per di più i nostri interessi economici e politici sono strategici e non immuni dalla competizione con quelli dei numerosi attori stranieri coinvolti in modo diverso nello scenario libico.

L’impegno a rimanere in una posizione di equilibrio
L’Italia ha tentato di riportare gli Stati Uniti dentro la gestione politica della crisi libica. Tuttavia, l’amministrazione Trump è risultata molto riluttante a impegnarsi in nuovi teatri di crisi internazionali. Le recenti vicende internazionali, dapprima lo scontro politico tra Italia e Francia sfociato in una vera e propria crisi diplomatica, ma anche probabilmente l’adesione italiana al progetto della “via della seta” cinese, non sembrano affatto aver favorito un consenso internazionale anche a tutela dei nostri interessi in Libia.
Scegliendo, proprio a Palermo, di aprire più palesemente al dialogo con il generale Haftar dopo che altri attori internazionali avevano creato con lui una relazione privilegiata, il governo di Roma deve fare molta attenzione a non generare una caduta di credibilità sia ad ovest tra le componenti più vicine a Roma, sia ad est tra quelle che sostengono il generale Haftar, e che hanno interpretato l'apertura italiana come una debolezza o una tacita ammissione dell’impossibilità di sostenere a lungo la propria strategia di supporto al premier Fayez al-Serraj e al governo delle Nazioni Unite. L’Italia sta cercando di tenere una posizione di equilibrio e di dialogare con entrambe le parti, ma il rischio che corre è quello di essere percepita come ambigua.