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I criminali diventano terroristi

Sembrava quasi che il terrorismo islamico fosse diventato un ricordo, ma l’attentato di Strasburgo ha fatto ripiombare l’Europa nell’incubo delle stragi. Dalle modalità di reclutamento dei militanti arriva un allarme che richiama a un più alto livello di attenzione e di contrasto al fenomeno

In Europa il numero degli attacchi terroristici eseguiti con successo si è ridotto considerevolmente: dai 20 messi a segno nel 2017 ai 7 del 2018 (includendo quello di Strasburgo). In Siria e Iraq lo Stato Islamico ha perso oltre il 95 per cento del proprio territorio. Eppure, gli ultimi fatti di cronaca lo dimostrano, il pericolo rappresentato dai militanti jihadisti non è mai venuto meno e il lavoro delle intelligence nazionali deve continuare, monitorando con particolare attenzione il territorio e tutti quei simpatizzanti jihadisti che potrebbero diventare pericolosi per la sicurezza nazionale.

Simpatizzanti, radicalizzati e foreign fighter
Sono decine di migliaia i simpatizzanti jihadisti che vivono in Europa. La concentrazione maggiore si trova in Francia, Regno Unito, Germania e Belgio, nelle periferie dei grandi centri urbani. La grande maggioranza di questi individui si limita a sostenere la causa estremistica, spesso più a parole, su Internet o all’interno di piccoli gruppi. Ma il rischio che una minoranza di questi simpatizzanti a un certo punto si radicalizzi e decida di passare dalle parole ai fatti è reale e può costituire un serio pericolo.
Non sono rari nemmeno i casi di radicalizzati che hanno deciso (o decidono) di partire per arruolarsi nell’esercito del Califfato. Particolarmente preoccupante è il dato sulla provenienza europea dei foreign fighters, che ammontano a circa 5000 (circa il 14% del totale), con la Francia nettamente in testa (oltre 900), seguita da Germania e UK (760 ciascuno), Belgio (470), Austria e Svezia (300), Paesi Bassi (220), Spagna (133) e Danimarca (125). Dall’Italia sarebbero partiti “solamente” 120 combattenti: tutti, tranne pochissime eccezioni, di origine straniera.

L’identikit del potenziale terrorista
L’Ispi, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, ha fotografato il fenomeno dei foreign fighters presenti in Europa e i rischi che essi rappresentano per le comunità nel momento in cui decidono di tornare nei paesi da cui sono partiti.
Sono storie molto diverse tra loro: uomini, donne, minori, qualche volta intere famiglie che hanno deciso di aderire alla jihad e che sono partiti per le zone di guerra per arruolarsi. Il pericolo più grande è che diventino combattenti di ritorno, che, dopo la sconfitta militare dell’Isis, fuggendo alla Siria e dall’Iraq possano aver deciso di tornare in Europa per continuare la loro guerra.

Molti studi hanno dimostrato che non esiste un profilo comune dei militanti jihadisti. Ma alcuni tratti ricorrono più di altri: giovane, di sesso maschile, figlio di migranti, ma nato e cresciuto nello stesso Paese in cui potrebbe colpire, con precedenti penali ed esperienze di detenzione. Spesso a differenza dei foreign fighter non hanno mai lasciato il Paese.
I dati Ispi segnalano che oltre il 70 per cento degli attentatori che hanno colpito in Europa dal 2014 (data di proclamazione della nascita del Califfato) a oggi era già sotto i radar delle autorità.

Ecco che quindi diventa di fondamentale importanza l’azione preventiva dell’intelligence dei Paesi europei per controllare il territorio e sventare possibili attentati. Informazioni diffuse con un documento dell’Interpol dicono che lo scorso anno sono stati sventati .

Criminalità, un terreno fertile
Negli ultimi anni gli esperti hanno evidenziato che molti jihadisti europei hanno un passato criminale. Secondo dati Ispi, dalla proclamazione del Califfato a oggi circa la metà dei responsabili di attacchi jihadisti in Europa aveva precedenti penali e poco meno del 25% era già stato in carcere.
La propaganda di gruppi armati come lo Stato Islamico non ha esitato a favorire e incoraggiare il reclutamento di delinquenti comuni. Poco importa se attività come rapine o spaccio di droga sarebbero incompatibili con l’ideologia ufficiale del gruppo armato, quello che più conta è il contributo che queste persone possono dare alla causa estremista. Il criminale comune può acquisire contatti e “competenze” che sono utili anche per il terrorismo. Come ad esempio può provvedere all’acquisizione e uso di armi da fuoco o automatiche anche se, va detto, sono l’opzione meno frequente poiché largo spazio viene dato all’uso di armi più facili da procurarsi come i coltelli o i veicoli da lanciare contro la folla.

Il carcere come luogo di reclutamento
Un altro punto di contatto tra criminalità e terrorismo è costituito dal carcere. E’ noto che sono sempre di più i soggetti che, entrati in prigione come delinquenti comuni, ne sono usciti come jihadisti per via delle frequentazioni con detenuti estremisti.
D’altra parte, le cause della diffusione di tale fenomeno negli istituti di pena sono immediatamente comprensibili: in condizioni di difficoltà emotiva come quella detentiva, la scoperta (o la riscoperta) della religione può, infatti, giocare un ruolo fondamentale su alcuni soggetti, ridando ordine e persino un nuovo senso alla stessa vita. 

Infine, la militanza jihadista e in casi estremi la vera e propria partecipazione ad attacchi terroristici può in alcuni casi essere vissuta come forma di redenzione e “purificazione” da tutti i “peccati” precedenti.
Per questo ultimamente si stanno attivando programmi di controllo e di monitoraggio delle attività di proselitismo estremista nelle carceri. L’Ufficio Immigrazioni della Polizia di Stato riceve rapporti settimanali dalla Polizia Penitenziaria contenenti i dati e informazioni di individui radicalizzati con scarcerazioni imminenti. I profili vengono poi analizzati per determinare il livello di pericolosità sociale e per decidere se intervenire disponendo un provvedimento di espulsione per i soggetti a rischio.


Il nuovo ruolo delle donne 

Anche il ruolo delle donne nel terrorismo jihadista sta cambiando. Da oggetto di piacere degli uomini o impegnate nella gestione della casa o delle retrovie, il reparto femminile jihadista ha iniziato nel tempo anche a impegnarsi attivamente nella commissione di attentati e attacchi di varia natura. Si calcola che al momento il 10% delle forze jihadiste sia composto da donne.
La maggior parte delle donne che giungono in Siria e Iraq viene da Paesi occidentali, in particolare dall’Europa, dove hanno potuto in molti casi ricevere un’educazione scolastica molto più approfondita rispetto alla media delle donne dei paesi arabi e delle province. Questo incide evidentemente sulla possibilità di queste donne di influire nel processo decisionale di un movimento jihadista più debole e sempre più composto da cellule solitarie.

Si è sviluppato così il fenomeno delle female fighters, donne che mettono la propria vita al servizio della guerra santa, diventando delle muhajirat, donne-combattenti. In sostanza, le donne musulmane, giovani e di cittadinanza europea, che giungono in Siria e Iraq, arrivano consapevolmente al Califfato con l’idea di poter contare qualcosa e di lottare per qualcosa più grande di loro. 

Ecco i Paesi europei che hanno un maggior numero di muhajirat sul totale dei rispettivi foreign fighters: Francia (200 donne su più di 900 partiti), Germania (148 donne su 720-760 partiti), Belgio (47 donne su 516 partiti) e Regno Unito (34 donne su 700-760 partiti). Questi sono seguiti da: Svezia (30 donne su 250-300 partiti), Austria (17 donne su 230 partiti, di cui 9 ragazze sotto i 18 anni), Danimarca (12 donne su 125 partiti), Spagna (13 su 120-139 partiti). Una manciata le donne partite dall’Italia (qualcuna anche tornata) che continuano ad operare come staffette o reclutatrici.

L’importanza del web
Diversi studi hanno dimostrato come nell’ultimo ventennio lo spazio digitale ha aperto le porte all’infiltrazione criminale così come a gruppi e organizzazioni terroristiche. Dal Maghreb al Medio Oriente, passando per l’Europa, l’Isis ha dimostrato in questi anni maggior fortuna dal punto di vista mediatico che dal punto di vista strategico-militare. Facendo leva sulle correnti più intransigenti dell’Islam radicale, il Califfato ha ampliato e potenziato il proprio raggio d’azione sfruttando le nuove tecnologie e internet: una strategia comunicativa basata sulla cultura delle immagini, che ha avuto una rilevante influenza propagandistica.
Se Twitter è il mezzo attraverso cui Isis rivendica le stragi compiute in suo nome in tutto il mondo, Telegram è invece tra i principali canali utilizzati per lo scambio di comunicazioni tra jihadisti. Questo sistema di messaggistica istantanea, provvisto di copertura e criptaggio dati molto avanzati, ha consentito a migliaia di estremisti e radicalizzati di creare sinergie tra i vari nuclei o cellule in modo rapido, condividendo informazioni anche pratiche su come compiere attentati. 

Anche YouTube è considerato uno dei canali di propaganda più efficaci, specie in tutta l’area dell’Europa occidentale. In particolare, è la piattaforma più utilizzata in rete dai reclutatori per raggiungere nuovi segmenti di pubblico da traghettare successivamente verso punti di contatto crittografati. Se inizialmente la condivisione dei video fatti circolare nei network jihadisti sembrava il frutto di un movimento dal basso verso l’alto, si è scoperto invece essere una strategia controllata dai piani alti delle organizzazioni jihadiste.


Perché l’Italia è stata finora risparmiata 

Le ricerche rivelano che l’Italia presenta livelli di radicalizzazione inferiori rispetto a quelli di altri Paesi occidentali. Tuttavia, anche se sembra meno esposta alla minaccia del terrorismo islamico, l’attenzione delle forze dell’ordine e dell’intelligence rimane elevata anche nel nostro Paese.

L’Italia ha imparato la lezione durante gli anni del terrorismo di piombo e oggi, per fronteggiare i network criminali, anche quelli jihadisti, l’intelligence e le forze dell’ordine sono in contatto costante. Decisiva è la prevenzione che però in Europa non ha lo stesso riscontro ovunque sul fronte investigativo e normativo.

Fondamentale è stato fino ad oggi avere un buon controllo del territorio grazie alle intercettazioni e alle infiltrazioni di agenti speciali nelle comunità considerate a rischio. L'assenza di luoghi paragonabili alle banlieu parigine nelle grandi città italiane e la predominanza di città medio-piccole ha reso più facile questo monitoraggio.

Si aggiunge che l'Italia non ha ancora una consistente popolazione di immigranti di seconda generazione che sono stati radicalizzati, o che potrebbero esserlo, e questo consente alle autorità italiane di focalizzarsi su chi non ha la cittadinanza e può quindi essere espulso al primo segnale di pericolo. 

La costante attenzione ha permesso finora di tenere sotto controllo la situazione espellendo personaggi a rischio che non avevano ancora commesso reati: nel 2017 sono stati 135, di cui 5 imam, per un totale di 237 espulsioni dal gennaio 2015. Gli estremisti arrestati l’anno scorso sono stati 36, dopo i 33 del 2016.

Infine non possiamo escludere anche valutazioni strategiche di opportunità fatte dai vertici jihadisti e dalle sue ramificazioni in Europa che potrebbero scelto scientemente fino ad oggi di non mettere l’Italia nel mirino dei propri terroristi. Colpire Roma, culla della cristianità e capitale del cattolicesimo, avrebbe potuto provocare una dura reazione del mondo cristiano che finora non ha mai veramente osteggiato la penetrazione islamica in Italia e in Europa. Fino ad oggi.