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La regola fondamentale della (buona) comunicazione

Nel dialogo l’omissione di informazioni conosciute è percepita nel migliore dei casi come maleducazione, se non come malafede. In ogni modo tale comportamento può ritorcersi contro chi lo ha praticato, e non solo in termini di immagine

Comunicare è proprio come aprire la hitchcockiana “finestra sul cortile”: in un battibaleno si può ormai raggiungere un intero mondo al di là della finestra, è vero, ma non meno di quanto il mondo intero possa sbirciare nelle nostre più segrete stanze. Chiunque ci può vedere come siamo e, se conosce appena appena le regole della comunicazione, finisce che gli diciamo più di quel che vorremmo mai dirgli, e sveliamo anche i nostri più arcani segreti, gli scheletri negli armadi.
Paul Grice circa mezzo secolo fa ha individuato un principio fondamentale che regola la comunicazione, che noi ne siamo consapevoli o meno. Si tratta del cosiddetto principio di cooperazione. La sua formulazione canonica si presta a una interpretazione che la banalizza in una norma di buon comportamento (della serie: “sarebbe tanto bello se… ma tutti sappiamo che invece le cose non vanno così”). Esso afferma, infatti: “Dà il tuo contributo, al momento opportuno, com’è richiesto da scopi e orientamento del discorso in cui sei impegnato”.
Il suo significato profondo è che la comunicazione funziona proprio così, anche se, sapendolo, qualcuno può cercare di distorcerla a proprio favore, ad esempio omettendo informazioni che sarebbe opportuno dare perché il discorso venga compreso, sviando l’attenzione verso aspetti secondari, inondando di dettagli insignificanti ecc. I vantaggi che una distorsione può produrre, come è ampiamente dimostrato, possono esserci però solo nel breve termine.

Il potere delle convenzioni
Nei casi più semplici, l’effetto boomerang che si produce quando la distorsione viene svelata può essere un semplice giudizio negativo (maleducazione!). Pensiamo al caso di un passante che ci chieda: “Scusi, sa l’ora?”. Se noi ci limitiamo a rispondere, con una appropriatezza meccanica (dunque non-umana): “Sì” e ce ne andiamo per la nostra strada, il messaggio che diamo è di scortesia e, di certo, non è un buon viatico per una futura relazione. Sappiamo bene cosa il nostro interlocutore intende con quella domanda, possediamo un codice di decodifica del suo messaggio e anche lui lo sa (o almeno è quello che pensa di noi ancor prima di conoscerci, sulla base di semplici convenzioni di convivenza).
Ma in casi più complessi, come quelli della pubblicità, della stipula di un accordo o di una campagna politica, una violazione del principio di cooperazione assume i caratteri di un tradimento (se non anche di un reato). Se ci capiamo nella vita quotidiana è per la cultura che condividiamo anche nelle sue forme implicite, come quelle che caratterizzano una comunità ricca di storia: l’effetto boomerang è la testimonianza di quanto la cultura sia vissuta nei comportamenti della vita quotidiana, anche se non ce ne rendiamo conto. Anzi, meno ci rendiamo conto della sua importanza, più siamo trascinati nella coazione a ripetere i comportamenti tradizionali e meno siamo cappaci di generare vera innovazione.
Nell’epoca di internet e dei social, poi, l’effetto boomerang per un’azienda, per una istituzione ma anche per una singola persona può rivelarsi devastante. Però, e proprio per questo, il vantaggio che il buon uso di questo principio può generare è ormai decisivo.
Infine, consideriamo che, se è vero che la comunicazione è solo un mezzo, un canale per scambiare contenuti, il modo come essa viene impostata e portata avanti è un contenuto: anzi, il primo contenuto che viene messo in mostra. È il nostro biglietto da visita. Ecco che allora diventa di buon senso utilizzare la comunicazione come un mezzo per una rivoluzione dolce, prendendo sul serio la cooperazione linguistica e usandola per ridisegnare i nostri stessi fini, dentro le pareti al di qua della finestra.