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Israele e le preoccupazioni del mondo occidentale

Le tensioni in atto e le trasformazioni interne a Israele potranno mutare radicalmente il fragile equilibrio di tutta l’area mediorientale. Nello stato ebraico si è insediato un governo di estrema destra che porta avanti posizioni divisive che preoccupano non poco l’occidente, Stati Uniti in primis

Le notizie provenienti dal medio oriente rendono inquieto il mondo occidentale. Il governo di ultradestra guidato da Benjamin Netanyahu, a trazione religiosa ortodossa, promette un intensificarsi delle tensioni interne a Israele, sia dal lato politico, che con l’Autorità Palestinese. Le decisioni del governo israeliano di procedere con la costruzione di migliaia di insediamenti in Cisgiordania fanno intuire che la linea del nuovo esecutivo non prevederà negoziazioni o aperture al dialogo: come sottolineato dall'Ispi, un intensificarsi degli scontri è molto più di un’ipotesi. Il sollevarsi di tensioni e il rischio di Intifada è reale e vanificherebbe gli sforzi di normalizzazione dello spazio mediorientale iniziati con il Patto di Abramo.

Tensioni interne

A Jenin a fine gennaio c’è stato un raid della polizia israeliana che ha provocato la morte di nove palestinesi. Le reazioni dello stato arabo non si sono fatte attendere: pochi giorni dopo a Gerusalemme Est ci sono stati tre attentati. Le intenzioni annunciate dal governo sul West Bank sono chiare: gli insediamenti di coloni aumenteranno. In questo clima di crescente tensione si è svolta la visita del segretario di stato americano Antony Blinken, una visita politica di facciata, ma che, vista la situazione di tensione, ha assunto dei connotati e una valenza totalmente differenti. Tutto ciò avviene durante il sesto mandato del governo di Bibi Netanyahu, in quello che gli analisti hanno definito il governo più di destra della storia di Israele. Al centro delle polemiche nello stato ebraico al momento c’è la riforma della giustizia, che permetterebbe al governo di avere il pieno controllo sull’organo che sceglie i giudici e toglierebbe alla Corte Suprema alcuni importanti poteri, dandoli all’esecutivo. Questa riforma in corso di approvazione al Knesset sta dividendo il paese, con l’opposizione che minaccia uno scontro totale per “non trasformare lo Stato in una dittatura”.

Paure a stelle e strisce


La visita di un alto funzionario degli Stati Uniti come il sottosegretario di Stato Blinken, che arriva in terra giudaica dopo altri pezzi grossi dell’establishment americano come il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e il direttore della Cia William Joseph Burns, certifica come gli Usa siano preoccupati della situazione politica che si sta creando in Israele e vogliano chiarire i limiti entro i quali il nuovo governo potrà agire. Da tempo gli americani però hanno sempre meno peso nelle scelte politiche israeliane: gli anni novanta di George Bush Sr. e Bill Clinton sono un lontano ricordo, ma la vicinanza allo Stato ebraico è tutt’oggi di fondamentale importanza strategica per gli Stati Uniti, che non possono permettersi di perdere l’unico vero alleato mediorentale. Proprio per questo preoccupa agli Usa la deriva ultra nazionalista e religiosa ortodossa che l’unica democrazia mediorientale ha preso. A incutere maggior timore è l’atteggiamento spregiudicato che il nuovo governo di ultradestra avrà nei confronti della Palestina. Il rischio di deteriorare ancora i rapporti fra Stato Israeliano e Autorità Palestinese porterebbe a uno stato di tensioni permanente, che sfocerebbero sempre più spesso in scontri armati, andando a intaccare anche il flebile equilibrio appena raggiunto con i vicini mediorientali, Arabia Saudita in primis (Limes). Nel campo dei rapporti israelo-palestinesi Washington continua ad aderire alla dottrina due stati, ormai però i dialoghi tra Israele e Palestina sono ridotto all’osso e una politica aggressiva in Cisgiordania, come quella preventivata dal nuovo esecutivo e già messa in atto con i fatti di Jenin, renderebbe impossibile mantenere l’equilibrio, con conseguenze nefaste sia dentro che fuori dal Paese.

La riforma della giustizia

Come accennato uno dei grandi nodi che stanno spaccando la politica e la società civile israeliana è la riforma della giustizia. Per cominciare è utile ricordare che Israele non ha una sua costituzione. Questo sostanzialmente espone il funzionamento dell’apparato democratico a dei rischi, togliendo la possibilità di appellarsi a un testo rigido che possa fornire una solida rete di supporto. Esistono tuttavia le cosiddette Basic Law che permettono di creare un substrato di principi democratici inalienabili su cui si fonda lo Stato. Proprio su queste il nuovo esecutivo di ultradestra vuole intervenire andando a modificare i poteri della Corte Suprema di giustizia. In particolare si vuole dare la possibilità al Parlamento e al Governo di bypassare la decisione della Corte di bloccare una legge. Per farlo basterebbe una (scontata) maggioranza semplice. In questo modo la Corte Suprema perderebbe ogni potere di controllo su Governo e Parlamento, aprendo la possibilità all’esecutivo di operare senza alcun tipo di argine giudiziario. Inoltre secondo la nuova legge verrebbe tolta la clausola di ragionevolezza, ovvero un artificio giuridico attraverso il quale la Corte poteva annullare un’azione del governo ritenuta priva di fondamento logico. In questo modo il potere giudiziario verrebbe marginalizzato e ridotto a un mero spettatore dell’attività politica dell’esecutivo, il quale si arrogherebbe, sempre attraverso questa riforma, il diritto unico di nominare i magistrati, politicizzandoli.


Una situazione interna esplosiva

Questa riforma più che mutare la giustizia rischia di rappresentare un vero e proprio cambio di regime. Di questo si sono accorti i partiti di opposizione e i numerosi manifestanti che hanno invaso le piazze, da Tel Aviv a Gerusalemme. Il ministero dell’Interno ha invitato la polizia a usare il pugno di ferro contro i dimostranti, sopprimendo il dissenso con la forza e rendendo ancora più esplosiva la situazione interna al Paese. Quello che preoccupa maggiormente infatti è il cambiamento della retorica politica negli ultimi mesi. I componenti del governo hanno più volte paventato l’idea di arrestare i leader dell’opposizione perché considerati i fomentatori delle proteste. Nel paese i toni stanno diventando sempre più violenti, sia da una parte che dall’altra. I membri del governo sono presi di mira da slogan e immagini che li ritraggono come guardie naziste, un’immagine molto forte in un contesto come quello del popolo giudaico. In generale l’inasprimento dei toni sul fronte interno non potrà far altro che far alzare la temperatura del confronto politico, in uno stato già pesantemente diviso da estremismi e fazioni opposte.


Il lato economico

Se le preoccupazioni americane e occidentali per la nuova svolta verso l’ultradestra di Israele sono crescenti, altrettanto seria è la reazione dell'élite economica locale, della grande e piccola imprenditoria, dalla Banca Centrale alle startup digitali tutti sono preoccupati per il clima di instabilità che porterà in dote il nuovo esecutivo di Netanyahu. Un’allerta che già è scattata nel fiorente comparto Hi-Tech di Israele, fiore all’occhiello dell’industria, settore strategico che ha permesso un’impennata all’economia ebraica. Molte delle aziende tecnologiche che hanno dato allo stato ebraico la possibilità di ritagliarsi un posto tra i big dell’innovazione tecnologica sono preoccupate dal clima incandescente che si sta creando nel paese e molte di loro hanno già prenotato un biglietto di sola andata per trasferirsi all'estero. Più in generale, la deriva ultra religiosa e nazionalista sta spaventando i mercati, che non vedono più Israele come un luogo sicuro in cui fiorire. La tenuta della democrazia è a rischio, le reazioni isteriche della politica ai principali temi non lasciano presagire nulla di buono sulla, già di per sé delicata, stabilità interna e di conseguenza sulle possibilità di crescita economica futura.

Niccolò Pescali