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Errata profilazione del lavoratore subordinato: quali i rischi

È compito del datore di lavoro analizzare la situazione contributiva di ogni dipendente ed elaborare, in ragione della storia previdenziale, la corretta contribuzione. Per questo, all’atto dell’assunzione si richiede una dichiarazione: ma la procedura contiene delle insidie

Come noto, ma largamente sottovalutato nelle prassi aziendali, la corretta profilazione del lavoratore dipendente è basilare per poter trattare con ottemperanza alla normativa la retribuzione e la contribuzione dello stesso senza che il datore di lavoro possa subire danni di carattere gestionale ed economico.
Conformemente alle previsioni di cui alla legge 335 del 1995 e alle modifiche successivamente introdotte dalla legge 214 del 2011, per i lavoratori dipendenti in possesso di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995, la contribuzione previdenziale è determinata in misura percentuale rispetto all’imponibile contributivo, senza la previsione di alcun massimale, contrariamente a quanto avviene per coloro che siano privi di anzianità alla medesima data, in riferimento ai quali il calcolo dei contributi Ivs è determinato nei limiti di un massimale annualmente oggetto di rivalutazione (articolo 2, comma 18, della legge 335 dell’8 agosto 1995).
In buona sostanza, nell’ambito delle attribuzioni di sostituto previdenziale che spettano all’azienda, incombe al datore di lavoro il compito di analizzare la situazione contributiva di ogni dipendente e quindi elaborare, in ragione della propria “storia previdenziale” la corretta contribuzione in termini mensili. In tal senso in genere e di buona prassi, viene richiesto al lavoratore subordinato all’atto dell’assunzione la compilazione di una specifica dichiarazione attestante il possesso o meno di anzianità contributiva alla data del 31 dicembre 1995.

Comunicazioni tempestive

Utile a tal fine ricordare come per “anzianità contributiva” debba correttamente farsi riferimento al complesso degli accrediti della contribuzione previdenziale obbligatoria, pur se afferenti e registrati in gestioni diverse, relativi a rapporti di lavoro privati o pubblici, dipendenti o autonomi (con versamenti di contributi, in tal caso, presso le rispettive casse di previdenza), in Italia o all’estero, in data precedente al primo gennaio 1996. 
Allo scopo di gestire correttamente il rapporto di lavoro, sono parimenti da trattare i periodi di contribuzione figurativa, facoltativa, volontaria, nonché i riscatti e i trasferimenti gratuiti e onerosi anche accreditati presso un ente anche successivamente alla costituzione del rapporto di lavoro: in sostanza il lavoratore assicurato deve “manutenere” la propria anagrafica previdenziale presso il sostituto previdenziale nella costanza del rapporto comunicando tempestivamente eventuali variazioni nella propria posizione pensionistica in modo che possa essere analizzata ed eventualmente modificato il versamento contributivo mensile. 

Il mancato aggiornamento della dichiarazione

Pertanto, in ragione della soggettiva situazione e storia contributiva del singolo lavoratore, il datore di lavoro sarà tenuto:

•    in ipotesi di anzianità contributiva al 31.12.1995, ad assumere quale base di calcolo non solo per la contribuzione minore ma anche per la contribuzione Ivs, senza alcun limite di massimale, l’intero imponibile previdenziale;
•    in ipotesi di assenza di anzianità contributiva al 31.12.1995, ad assumere quale base di calcolo per la contribuzione Ivs l’imponibile previdenziale nel rispetto del massimale contributivo annualmente applicabile, mentre la parte eccedente detto massimale sarà base di calcolo per le sole contribuzioni minori (es. maternità, Naspi, malattia ecc.).

Pur se talvolta l’errata gestione amministrativa del massimale contributivo effettuata dal datore di lavoro è a questi esclusivamente imputabile stante la mancata profilazione del soggetto assicurato; o una gestione non coerente con la dichiarazione rilasciata dal lavoratore (è il caso in cui, ad esempio, il lavoratore abbia dichiarato di avere anzianità contributiva ante ’96 ma l’azienda erroneamente calcola la contribuzione Ivs nei limiti del massimale contributivo), nella maggior parte dei casi detta gestione errata è in realtà imputabile a un’errata dichiarazione rilasciata dal lavoratore ovvero a un mancato “aggiornamento” da parte dello stesso di una dichiarazione precedentemente resa.

Contribuzione inconsapevole

Spesso per mancanza di conoscenza o per superficialità il lavoratore, in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro, dichiara al datore di lavoro di non avere anzianità contributiva al 31.12.1995 quando, nei fatti così non è: non sono rare le ipotesi in cui il lavoratore se ne dimentichi ovvero non sia consapevole (non rari esempi come supplenze o collaborazioni estive). L’ovvia conseguenza di tale errata dichiarazione è che la contribuzione Ivs sia calcolata dal datore di lavoro nel limite del massimale quando, nei fatti, tale massimale non dovrebbe essere applicato, con conseguente diritto dell’ente previdenziale ad agire per il recupero della contribuzione omessa (in riferimento alla quale verranno altresì calcolate le sanzioni civili per omesso/tardivo versamento, nonché gli eventuali interessi moratori), diritto che si prescrive nell’ordinario termine quinquennale

L’ipotesi del riscatto della laurea

Sotto medesimo profilo, frequente è anche l’ipotesi in cui la profilazione del dipendente non venga “manutenuta” e aggiornata con riscatto di anni di laurea che si collocano in tutto o in parte in periodi antecedenti il primo gennaio 1996. In tale ipotesi, il lavoratore dovrebbe correttamente informare il datore di lavoro dell’acquisizione, a seguito del riscatto, di anzianità assicurativa relativa a periodi antecedenti il primo gennaio 1996 e, conseguentemente, di non essere ulteriormente soggetto all’applicazione del massimale ex art. 2, comma 18 della legge 335/95, a partire dal mese successivo a quello di presentazione della relativa domanda di riscatto. Ciò non sempre avviene nella prassi, con il medesimo risultato più sopra descritto: il datore di lavoro calcola la contribuzione Ivs, erroneamente, nel limite del massimale con conseguente diritto dell’Inps ad agire per il recupero della contribuzione omessa.

L’esercizio di opzione del lavoratore

Infine, merita altresì di essere menzionato il caso di lavoratore che, pur in possesso di anzianità contributiva al 31.12.1995, conformemente alla disciplina di cui all’articolo 1, comma 23, della legge 335/1995, abbia regolarmente esercitato la propria opzione per la trasformazione e la liquidazione della pensione secondo le regole contributive (facoltà riconosciuta, qui in sintesi, a coloro che i) non abbiano maturato 18 anni di contribuzione alla data del 31 dicembre 1995; ii) possano vantare almeno 15 anni di contribuzione di cui almeno cinque nel sistema contributivo).
A seguito dell’esercizio dell’opzione, pur in presenza di anzianità contributiva ante 1996, ai fini del calcolo della contribuzione Ivs trova piena applicazione il massimale contributivo. Per qualsivoglia motivo il datore di lavoro non sia informato dal lavoratore dell’esercizio dell’opzione in esame, lo stesso continuerà a calcolare a contribuzione Ivs senza applicazione del massimale con conseguente diritto delle parti (datore di lavoro e lavoratore) al recupero di quanto versato in eccesso, diritto che si prescrive nell’ordinario termine quinquennale.

L’errore nell’applicazione del massimale

In caso di errata applicazione del massimale contributivo e, nello specifico, in ipotesi la contribuzione Ivs sia erroneamente calcolata nei limiti del massimale contributivo, quali sono le conseguenze in capo al datore di lavoro?
La risposta a tale quesito non può prescindere dall’analisi delle disposizioni di cui agli articoli 2115 del codice civile e degli articoli 19 e 23 della legge 218/1952. L’art. 2115, comma 2, del codice civile in tema di contribuzione stabilisce che: “l’imprenditore è responsabile del versamento del contributo, anche per la parte che è a carico del prestatore di lavoro, salvo il diritto di rivalsa secondo le leggi speciali”.


L'art.19 della legge 218/1952, invece, che "il datore di lavoro è responsabile del pagamento dei contributi anche per la parte a carico del lavoratore; qualunque patto in contrario è nullo. Il contributo a carico del lavoratore è trattenuto dal datore di lavoro sulla retribuzione corrisposta al lavoratore stesso alla scadenza del periodo di paga cui il contributo si riferisce."

La citata disposizione di legge ha la finalità di regolamentare e disciplinare l’ordinaria gestione dell’obbligazione contributiva gravante in capo al datore di lavoro e al lavoratore: il primo è responsabile dell’effettivo pagamento dei contributi nei confronti dell’ente previdenziale, anche per la quota a carico del lavoratore, fermo restando che a questi può essere trattenuta la quota a suo carico dalla retribuzione cui il contributo si riferisce.

L’esclusione del diritto di rivalsa nei confronti del lavoratore 

Il successivo articolo 23 della medesima norma di legge, invece, regolamenta e disciplina la differente ipotesi in cui il pagamento dei contributi sia omesso o ritardato, in tutto o in parte dal datore di lavoro: “il datore di lavoro che non provvede al pagamento dei contributi entro il termine stabilito o vi provvede in misura inferiore alla dovuta è tenuto al pagamento dei contributi o delle parti di contributo non versate tanto per la quota a proprio carico quanto per quella a carico dei lavoratori, (…)”.

Le “leggi speciali” richiamate dall’art. 2115 del codice civile la giustificazione dell’eventuale esercizio del diritto di rivalsa, nel caso di specie escludono nei fatti l’esercizio di tale facoltà; infatti il citato art. 23 della legge 218/1952 (norma, appunto, speciale) sanziona il datore di lavoro che non provvede al pagamento dei contributi entro il termine stabilito o (come nel caso al nostro esame) vi provvede in misura inferiore, con l’esplicita esclusione del diritto di rivalsa nei confronti del lavoratore.

Pertanto, in ragione delle esaminate norme di legge, in caso di errore nell’applicazione del massimale meramente imputabile al datore di lavoro questi si dovrà fare carico dell’intera contribuzione omessa, anche per la quota che sarebbe stata a carico del lavoratore, nonché delle sanzioni civili e degli eventuali interessi moratori (seppure non specificatamente attinente il tema del massimale contributivo, si veda in tal senso in tal senso, a titolo esemplificativo, Cassazione 18897, 15 luglio 2019; Cass. 25856, 16 ottobre 2018; Cass. 13164 25 maggio 2018; Cass. 23426, 17 novembre 2016).