la-questione-del-contagio-dei-no-vax

La questione del contagio dei no-vax

È nel diritto del singolo poter scegliere se sottoporsi o meno al vaccino contro il Covid-19, ma la scelta può comportare al datore di lavoro una serie di problemi da gestire

Ha generato molto interesse la notizia che alcuni infermieri contrari alla vaccinazione siano risultati positivi al Covid-19. Non solo vi è un evidente rischio per sé e per coloro che queste persone devono curare (per lo più soggetti deboli), ma non è chiaro come questi casi vadano trattati e gestiti.
Il tema non è irrilevante, perché – in attesa di una norma sulla vaccinazione obbligatoria auspicata da più parti (Garante della privacy e Presidente dell’Inail) – alcuni di questi soggetti costituiscono un rischio per la salute. Il Garante della privacy ha giustamente chiarito che il datore di lavoro non può richiedere al lavoratore se sia o meno vaccinato, né il datore di lavoro può ricevere queste informazioni dal medico competente, il quale può esprimere solo un giudizio di idoneità alla mansione. Inoltre, è notizia di qualche giorno fa che l’Inail, al contrario delle attese, intende riconoscere l’infortunio anche a coloro che hanno scelto deliberatamente di non vaccinarsi (anche se lo riconosce soltanto se si prova che il contagio è avvenuto in azienda, circostanza ben difficile da provare).
Cerchiamo di fare chiarezza anche per capire come gestire questi casi.
Chi decide di non vaccinarsi (non chi non può farlo) è consapevole di esporsi a un rischio per sé e per la salute degli altri. Se il lavoratore contrae il virus, evidentemente se ne è assunto liberamente il rischio per cui non può essere coperto dall’assicurazione infortuni che, per l’appunto, non opera quando il lavoratore si assume un rischio eccessivo e voluttuario (il cd. rischio elettivo), anche se l’Inail oggi non va in questa direzione, avendo optato per una soluzione più diplomatica e mascherata che, nei fatti, porta ragionevolmente allo stesso risultato. Ovviamente questo principio non può valere nei confronti di chi non può vaccinarsi per motivi di salute, nel qual caso sarà sempre considerato un infortunio.
Su un altro piano, il fronte aperto dal Garante della privacy non sorprende, anche perché vi è un divieto già presente nell’ordinamento (artt. 5-8 St. Lav.) che esclude investigazioni sulla salute dei dipendenti. Tuttavia, questa limitazione è risolvibile sul piano pratico.
Ciascun imprenditore deve innanzitutto tutelare la salute dei propri dipendenti e impedire che soggetti no-vax possano contagiare altri dipendenti. La prima operazione, quindi, è rivedere il documento di valutazione dei rischi, evidenziando il rischio Covid e prevedere un monitoraggio costante a opera del medico competente.
Il medico competente certamente potrà assumere informazioni sulle vaccinazioni effettuate per ragioni mediche e di monitoraggio generale dal diretto interessato; potrà anche non riferire al datore di lavoro che quel lavoratore non è vaccinato, ma può esprimere un giudizio di inidoneità alla mansione se quel soggetto presenta, in quel dato contesto lavorativo, rischi per sé e per gli altri. Il che significa che, una volta ricevuta quella informazione, il datore di lavoro non potrà più farlo lavorare in quel reparto, ma dovrà verificare se poterlo ricollocare o meno in altro reparto o se farlo lavorare da remoto.
Se queste opzioni non sono praticabili, allora il dipendente potrà essere licenziato o, con ogni probabilità, sospeso senza retribuzione per un’ipotesi di impossibilità temporanea sopravvenuta della prestazione. Se poi il dipendente no-vax contrae il virus, dovrà restare in quarantena senza retribuzione sino a guarigione e non avrà diritto al riconoscimento dell’infortunio che è per l’appunto la strada su cui oggi è giustamente orientata l’Inail.
Ma è anche probabile che – avendo violato i più elementari obblighi di cautela quale espressione del più generale obbligo di buona fede – il lavoratore non abbia diritto a eventuali integrazioni della malattia ad opera del datore di lavoro.