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La città: i rischi della civilizzazione

Da sempre è sinonimo di libertà, di comunicazione e di ricchezza, non solo economica. Ma è anche un aggregato che crea solitudini e minore controllo sociale

La tendenza ad abitare in città è una costante della storia. La popolazione urbana è andata sempre crescendo e oggi circa il 60% della popolazione umana vive in ambienti urbani sovraffollati. La vicinanza sembra dunque una nostra esigenza vitale. Eppure, nella pandemia del 2020 abbiamo sperimentato, se la memoria letteraria o collettiva non fosse bastata, che la città è diventato luogo di massimo rischio. Molte epidemie di cui la storia ci ricorda, che fossero peste, vaiolo o morbillo, dalla prima peste di Atene (V sec. a.C.) in avanti, procurarono persino decine di milioni di morti, durando anche più di un decennio. Eppure, dopo quegli shock terrificanti, la civiltà ha sempre ricominciato a costruire città e ad accrescere quelle che aveva. Qual è, dunque, la forza attrattiva che ci sospinge inesorabilmente a vivere insieme quando dovremmo aver imparato che il massimo della sicurezza sarebbe nello starci lontani?
Cominciamo col chiederci cos’è, in fin dei conti, una città.

Un organismo che evolve
Per capirlo è utile pensare alla città per antonomasia, l’Urbe romana; anzi, alle città che i Romani fondarono durante la loro ascesa nel loro dominio. Quando conquistavano un territorio vi installavano una città posta in pianura, alla confluenza di agevoli vie di comunicazione, liquide o lastricabili, e non in cima a colline o montagne che fornissero una difesa naturale, come era per i villaggi che avevano incontrato nella loro avanzata. Le città erano, infatti, strumenti di comunicazione. D’altronde l’umbilicus, il centro di Roma, era il punto sacro dal quale tutte le strade si dipartivano andando a tessere il loro mondo: “tutte le strade portano a Roma”, infatti, e, specularmente, il mondo non era che l’estensione della città. La città costruiva il mondo civile laddove prima c’era solo barbarie. “La città rende liberi”, si sarebbe poi detto nel medioevo di lingua tedesca. “La città rende soli”, si sarebbe constatato nel XX secolo. “La città contamina”, dovremmo forse convenire dopo Covid-19? C’è del vero in tutto questo.
Entrare in città significava entrare nella civiltà, uscire dal feudalesimo, svincolarsi dalle angustie rurali del natio borgo selvaggio leopardiano; ma la solitudine nel brulichio della società di massa si rivelò ben presto la cifra della metropoli già nell’Ottocento. E tutti abbiamo sperimentato almeno una volta la profondità della solitudine nella moltitudine.
Eppure, i modi civili sono modi “urbani”, non “villani”: la libertà metropolitana è piena di regole, solo in parte scritte (leggi), ma soprattutto implicite, nemmeno insegnate, perché vanno apprese per non essere automaticamente esclusi.
Una città vive della comunità di individui che scambiano fra loro beni, messaggi, emozioni; è un organismo che vive in osmosi con il suo ambiente, con il territorio circostante ed entro un reticolo di altre città con cui avvengono ulteriori scambi. Così facendo mantiene in vita i suoi abitanti. Anzi, fornisce loro un’anima collettiva. Essa ha un nome proprio, un’identità: è, dunque, un soggetto riconoscibile, “consapevole” di essere diversa dalle altre, e di avere una propria “anima”. E milanesi, parigini, newyorkesi ecc. più che nascere, lo si diventa vivendo la città. Se i cittadini, insomma, fanno la città, la città, in un certo senso, fa i cittadini.
Ma una città, proprio per questi continui e molteplici scambi, è un organismo che cambia continuamente, ha una propria storia. Vedremo prossimamente alcuni parallelismi, il primo dei quali sarà fra la città e una nave.