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L'Europa bacchetta l'Italia sulle pensioni

Quota 100 non funziona e ci sono troppi assegni di reversibilità: la Commissione Europea boccia così l'assetto previdenziale italiano. Per Pasquale Tridico, presidente dell'Inps, il sistema è invece solido e sostenibile

L'Unione Europea boccia ancora una volta l'Italia sulle pensioni. Nel rapporto che monitora lo stato di avanzamento delle correzioni ad alcune criticità nazionali, la Commissione Europea punta in particolare il dito contro quota 100: la misura non è servita ad alimentare la crescita sociale ed economica dell'Italia, bloccando allo stesso tempo l'attuazione di precedenti riforme previdenziali (leggi riforma Fornero) che avrebbero contribuito a contenere la crescita della spesa pensionistica. L'orientamento negativo dell'Unione Europea nei confronti di quota 100 è noto da tempo. Lo scorso novembre, per esempio, la Commissione Europea aveva affermato che l'Italia risultava “esposta a un ulteriore indebolimento dell'economia globale e a un potenziale peggioramento delle condizioni di finanziamento, dato il suo elevato debito pubblico”. Nel mirino era finita proprio quota 100 che, insieme al reddito di cittadinanza, veniva vista come la fonte principale di un potenziale aumento del debito e della spesa pubblica: a detta dell'Unione Europea, le due misure avrebbero iniziato a “mostrare il loro costo annuale a partire dal 2020, aumentando ulteriormente la spesa pubblica”.
Una seconda bacchettata arriva poi dagli ultimi dati Eurostat, relativi al 2018: secondo quanto diffuso dall'ufficio statistico europeo, l'Italia risulta infatti al vertice della spesa per anziani e per pensioni di reversibilità. Agli anziani è andato infatti il 27,5% della spesa sociale complessiva: solo in Grecia si raggiungono valori più alti (28,1%), mentre l'Unione Europea viaggia mediamente su un ben più contenuto 22%. Gli assegni di reversibilità hanno invece assorbito il 5,4% della spesa sociale, contro una media europea del 3,3%.

Inps: “Il sistema è sostenibile”
Numeri che lanciano l'ennesimo allarme sui conti previdenziali dello Stato: il sistema pensionistico italiano non appare sostenibile. Non è dello stesso avviso invece Pasquale Tridico, presidente dell'Inps, che è intervenuto in audizione alla commissione bicamerale di controllo degli enti previdenziali. A detta di Tridico, la spesa previdenziale italiana, al netto dell'Irpef e dell'assistenza, pesa infatti solamente per l'8% del Pil e non costituisce una minaccia per i conti pubblici.
Il totale della spesa dell'Inps, ha specificato Tridico, è stato nel 2018 “pari al 18% del Pil”. Nel conto sono tuttavia incluse anche prestazioni temporanee e servizi di natura assistenziale che poco hanno a che fare con le vere e proprie pensioni: depurato di tutti questi costi, la spesa per pensioni si attesta a poco meno del 12% del Pil. Se a ciò, ha proseguito Tridico, “togliamo i 58 miliardi di euro che i pensionati versano come Irpef, e che quindi tornano allo Stato, la spesa per pensioni vera e propria scende all'8% del Pil: sulla base di ciò – ha chiosato – io dico sempre che il sistema pensionistico italiano contributivo è sostenibile”.

In cantiere la riforma di quota 100
Quota 100, che consente di andare in pensione con 62 anni di età e 38 anni di contributi, scadrà il 31 dicembre 2021. E c'è la percezione che fino a quella data poco o nulla sarà fatto. “Per noi quota 100 resta: è importante e ci teniamo a mantenerla in piedi”, ha affermato recentemente Fabiana Dadone, ministro della Pubblica amministrazione. Quello che succederà dopo resta però tutto da vedere. Il Governo ha ribadito più volte di non voler prorogare l'esperimento di quota 100 oltre la sua naturale scadenza. Allo stesso tempo tuttavia, anche al fine di evitare che si formi uno scalone quando la misura andrà definitivamente in soffitta, il mondo politico ha aperto i cantieri per garantire forme di flessibilità in uscita dal mondo del lavoro. In questo contesto, una fantomatica quota 101 appare l'ipotesi più gettonata. “Si potrà eventualmente valutare se portarla a quota 101 – ha ammesso Dadone – ma sono ipotesi preliminari”. Al vaglio della politica c'è anche l'ipotesi di introdurre una quota 102.
Riforme di questo genere portano tuttavia con sé due criticità. Innanzitutto, se attuate in una forma molto rigida che prevede il ricalcolo dell'intero assegno previdenziale col sistema contributivo, le misure porterebbero a pensioni molto meno sostanziose del previsto: secondo alcune stime, gli assegni potrebbero essere inferiori del 20-30% rispetto a quanto preventivato. D'altro canto, riforme più generose rischiano di avere costi molto alti e di finire nel mirino, come già avvenuto con quota 100, dell'Unione Europea. L'obiettivo, in questo caso, è quello di riuscire a mantenere i conti in ordine e garantire, allo stesso tempo, forme di flessibilità in uscita. Da più parti si propone di sfruttare quel tesoretto da sei miliardi di euro che si verrebbe a creare se il tasso di adesione a quota 100 si mantenesse sui livelli che si sono registrati nel 2019: a fine anno avevano optato per l'uscita anticipata dal mondo del lavoro poco più di 150mila lavoratori, praticamente la metà di quanto aveva previsto il Governo. La decisione, in questo caso, è tuttavia totalmente politica: i risparmi potranno essere utilizzati per garantire forme di pensionamento flessibile oppure, come propongono alcuni partiti della maggioranza, per ridurre le tasse e sostenere gli investimenti.