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Il mondo al tempo delle incertezze

Cambiamento climatico, guerre commerciali, rallentamento dell’economia globale: il pianeta, secondo l’ultimo rapporto del Centro Einaudi, si affaccia al nuovo decennio in uno scenario ricco incognite. Intanto in Italia, stretta fra tensioni internazionali e debolezze croniche, il pil va in tilt

Il 2020 si è aperto con l’omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani. È proseguito con l’esplosione dell’epidemia di coronavirus. Ed è arrivato al suo secondo mese di vita con l’uscita formale del Regno Unito dall’Unione Europea e con il caos dei caucus per le primarie del Partito Democratico in Iowa. Nel frattempo, il Bullettin of the atomic scientists ha spostato le lancette del Doomsday Clock a 100 secondi dalla mezzanotte, ponendole mai così vicine alla possibile all’apocalisse. E poi ancora, cambiamento climatico, automatizzazione del sistema produttivo, rallentamento dell’economia globale e guerre commerciali: tanti nodi a lungo irrisolti che rischiano di porre nuove incognite sull’anno (e sul decennio) che è appena iniziato.
Basterebbero queste poche righe, nemmeno troppo esaustive, per comprendere il generale clima di incertezza con cui si è aperto il nuovo anno. E non è senza dubbio un caso che il Centro Einaudi abbia voluto intitolare il suo ultimo Rapporto sull’economia globale e l’Italia, realizzato in collaborazione con Ubi Banca, proprio Il tempo delle incertezze: proprio questa sembra essere infatti la cifra caratteristica dell’attuale scenario mondiale. Curato dall’economista Mario Deaglio e pubblicato da Guerini e Associati, il volume tratteggia i contorni di un contesto globale in rapida evoluzione, in cui alle opportunità del cambiamento si associano inevitabilmente incognite che pesano sul naturale sviluppo del pianeta.

Da locomotiva ad aliante
Gli Stati Uniti, come ormai da un secolo a questa parte, restano stabilmente al centro del panorama mondiale. E arrivano al 2020, almeno a una prima occhiata, in buona salute: nel 2019 il tasso di disoccupazione si è fermato al 3,6%, l’aumento dei salari ha persino superato le previsioni della Federal Reserve e Wall Street ha chiuso l’anno con una crescita del 31%. Tutto a posto, dunque? Non proprio, se si osservano meglio le statistiche. Il lavoro, per esempio, è sempre più precario: se ai disoccupati si associano i lavoratori part-time e occasionali, il tasso di disoccupazione sale al 7%. Ben 37 milioni di americani vivono in povertà, 35 milioni sono costretti a fare la spesa con i food stamp e 27 milioni di lavoratori non hanno un’assicurazione sanitaria. Anche la corsa di Wall Street, nonostante le fanfare dell’anno dei record, non appare così solida. La crescita degli utili ha registrato un forte rallentamento e i profitti restano comunque concentrati fra le prime della classe: nel 2019, le 30 principali società hanno conseguito il 50% di tutti gli utili realizzati dall’intero listino.
A uno sguardo più approfondito, gli Stati Uniti si rivelano dunque un gigante dai piedi di argilla. Il rapporto utilizza invece un’altra metafora per descrivere l’evoluzione di quella che in passato era la locomotiva dell’economia mondiale, capace di accelerare e trainare dietro di sé quanti più vagoni possibile. Gli Stati Uniti oggi, secondo il Centro Einaudi, appaiono oggi più come un aliante, una struttura complessa di materiali leggeri, sofisticati e fragili che non è in grado di mantenere una direzione e una quota precisa. E, soprattutto, di trainare nessun vagone.

Un mondo dis-integrato
Sempre gli Stati Uniti sono protagonisti della guerra dei dazi esplosa negli ultimi anni. Le limitazioni al commercio internazionale, secondo il rapporto, rientrerebbero in una più ampia strategia commerciale volta a scardinare gli accordi multilaterali esistenti per rinegoziare nuove intese a livello bilaterale, in cui gli Stati Uniti possano far valere il proprio peso economico. Così facendo, si punterebbe a un triplice obiettivo: rimpatriare investimenti americani all’estero, ostacolare la crescita della Cina e soddisfare il bisogno di riscossa del ceto medio. I risultati, tuttavia, tardano a manifestarsi. Per quanto riguarda, per esempio, la riscossa del ceto medio, fondamentale nell’anno delle elezioni presidenziali, la popolarità del presidente Donald Trump resta estremamente bassa: secondo l’indice Gallup, è passata dal 46% delle elezioni del 2016 al 41% dell’ottobre del 2019. Si è poi risollevata a fine anno, sulla scia del successo di Wall Street, al 45% ma resta comunque più bassa del 52% fatto registrare mediamente dai presidenti precedenti al termine del terzo anno di mandato.
L’unico risultato tangibile per il momento resta la compressione del consumo e della produzione in tutto il mondo. Il peso del commercio estero sul pil globale si avvia verso un’ulteriore regressione, alimentando dopo anni di globalizzazione una dinamica di dis-integrazione dell’economia mondiale.

Vittime collaterali della guerra dei dazi
Gli effetti della guerra dei dazi si faranno sentire ancora a lungo. Secondo l’Economic Outlook dell’Ocse, le restrizioni al commercio mondiale contribuiranno a rendere debole la crescita del pil globale fra 2019 e 2021. Soltanto pochi paesi, come India e Cina, si salveranno da questa dinamica, ma resta tuttavia improbabile che la loro crescita possa compensare le perdite che si sono registrate (e si registreranno) in altre aree del pianeta. Aree come l’Italia, vittima collaterale di una guerra commerciale che ha colpito partner fondamentali per le nostre esportazioni: i vincoli posti al commercio di prodotti tedeschi, per esempio, si è tradotto in una marcata flessione della produzione industriale italiana e, di conseguenza, in un rallentamento del tasso di crescita del pil. Per dirla con le parole del rapporto, la decisione del presidente Trump di imporre dazi sull’importazione dell’acciaio e dell’alluminio ha contribuito a mandare in tilt nel 2019 il pil dell’Italia.

Il tilt del pil
L’economia italiana aveva mostrato negli scorsi anni qualche timido segnale di ripresa. Nel 2017 e nel 2018, per esempio, la bilancia corrente con l’estero si era rivelata estremamente positiva, attestandosi rispettivamente al 2,8% e al 2,5% del pil: nel 2008, giusto per avere un’idea, il saldo viaggiava su livelli attorno al -3%. Poi però qualcosa è andato storto. La curva del pil nel 2018, avviato secondo molti verso la soglia psicologica del 2%, si è fermata sotto l’obiettivo. E l’Istat ha recentemente stimato un calo congiunturale dello 0,3% del pil nel terzo trimestre del 2019: se le previsioni saranno confermate, l’anno si sarà chiuso con una crescita pari a zero.
La guerra dei dazi ha avuto sicuramente il suo peso, ma non basta certo a giustificare da sola anni di crescita asfittica, al ritmo dello “zero virgola” quando tutto va bene. Secondo il rapporto, le ragioni principali della mancata crescita sono infatti altre. E risiedono soprattutto in quello che viene definito “lo sciopero degli investimenti netti”. Punto di partenza della riflessione è il sostanziale dimezzamento del risparmio netto complessivo che si è registrato negli ultimi vent’anni. Nel 2000 famiglie, imprese e settore pubblico riuscivano a mettere da parte risorse pari al 6% del pil: oggi si arriva appena al 3,3%. E pochissimo, a differenza di quanto avveniva in passato, viene destinato agli investimenti: soltanto lo 0,3% del pil, con il risultato che ogni anno si perdono 54 miliardi di euro che potrebbero andare a sostenere l’economia reale. E che invece restano parcheggiati nei portafogli, spesso in liquidità, alimentando una crescita dei depositi che dal 2013 viaggia un ritmo del 4% annuo.