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Inflazione primo rischio, ma rientrerà (forse)

Corrono i prezzi in Italia e nell’Eurozona, ma la rincorsa sembra perdere slancio. Goldman Sachs si dice ottimista sulla possibilità che i paesi dell’euro evitino la recessione, ma non tutti sono d’accordo con questa visione. Intanto le imprese italiane cercano di rischiare il meno possibile

Tutti gli occhi restano puntati sull’inflazione. La febbre dei prezzi lancia segnali contrastanti, tanto che è sempre più complesso prevederne l’evoluzione nei prossimi mesi, cosa che condiziona le scelte imprenditoriali del settore produttivo e quelle di risparmio e investimenti dei consumatori e del settore finanziario. L’inflazione, dicono molti analisti, resta il rischio numero uno per l’anno appena iniziato. Per quanto riguarda l’Italia, l’Istat, a fine 2022, riportava un’inflazione del quarto trimestre in decisa accelerazione rispetto ai tre mesi precedenti: nel periodo ottobre-dicembre c’è stata una fiammata dell’11,7%, mentre a luglio-settembre si era registrato un +8,4%. Tuttavia, a dicembre le spinte inflazionistiche hanno mostrato una moderata decelerazione: la variazione rispetto al mese precedente è stata del +11,6%, mentre a novembre era del +11,8%. Per l’anno in corso, il segnale sull’andamento generale dei prezzi si evince dall’inflazione acquisita, che continua a mostrare una dinamica crescente, pari al 5,1%, e che si riflette a largo spettro su tutte le tipologie di beni al consumo. Rispetto all’area euro, la differenza dei prezzi al consumo si è ampliata ulteriormente, superando il 3%, per effetto della maggiore crescita in Italia dei beni energetici e degli alimentari. 

Pesano i prezzi dell’energia 

Contemporaneamente, però, migliorano i giudizi delle aziende italiane medie e grandi sulla situazione economica e sulle condizioni operative. Nel quarto trimestre dell’anno scorso, sono cresciute le aspettative sulla domanda nonostante il peso del rialzo dei prezzi energetici e le attese di un’inflazione record. Lo ha rilevato un’indagine recente di Bankitalia, condotta tra le imprese italiane dell’industria e dei servizi con almeno 50 addetti. Le attese sull’inflazione al consumo, nello specifico, sono cresciute in misura marcata raggiungendo in tutti i comparti i livelli massimi dal 1999 (l’inizio delle rilevazioni), afferma Banca d’Italia: il tasso atteso si attesta, in media, all’8,9% tra sei mesi (7,5% nella precedente rilevazione) e all’8,1% tra 12 mesi (dal 6,9%). Le imprese prevedono che l’inflazione farà loro compagnia per lungo tempo, giacché si aspettano un dato al 6,7% tra due anni e al 5,7% su un orizzonte compreso tra i tre e i cinque anni. Permangono le prospettive di una congiuntura economica debole. Oltre l’85% delle imprese assegna una probabilità nulla o inferiore al 25% alla possibilità che il quadro economico generale possa risollevarsi già nel primo trimestre del 2023. Le imprese sono pronte, quindi, a proseguire con l’intento di accumulare capitale nel corso del 2023: le condizioni per investire restano ampiamente negative, anche se la forbice tra “ottimisti e pessimisti” si sta avvicinando. 

Lo spettro della recessione 

Allargando lo sguardo all’Europa, e nello specifico alla zona euro, da segnalare il parere di Goldman Sachs, che ha sensibilmente migliorato la propria stima sulla crescita dell’Eurozona nel 2023, ribaltando la propria previsione: niente recessione ma, anzi, una debole crescita, pari allo 0,6%. “Non ci aspettiamo una recessione tecnica”, hanno commentato gli analisti di Goldman, nonostante i primi mesi invernali deboli a causa della crisi energetica. “Ciò riflette – continuano – uno slancio di crescita più resiliente alla fine dello scorso anno, prezzi del gas naturale nettamente inferiori e una riapertura anticipata della Cina”. Germania e Italia, che dipendono maggiormente dall’attività industriale ad alta intensità energetica, soffriranno di più rispetto a Francia e Spagna, che hanno fonti energetiche più diversificate e sono relativamente più ad alta intensità di servizi. 

Aumenta il costo del lavoro 

Tornando all’inflazione, secondo la banca americana, almeno nell’Eurozona, dovrebbe aver “superato il picco”, e dopo il calo dei prezzi dell’energia all’ingrosso, è lecito prevede possa finire l’anno intorno al 3,2%, rispetto alle attese del 4,5% precedente, salvo imprevisti (che spesso, come sappiamo, accadono). Goldman Sachs prevede anche un rallentamento dell’inflazione core a causa del calo dei prezzi dei beni, pur in presenza di una “continua pressione al rialzo” sull’inflazione dei servizi, a causa dell’aumento del costo del lavoro. Sul fronte del potere d’acquisto, i recenti accordi sindacali e gli effetti di recupero dall’elevata inflazione complessiva nella zona euro, potrebbero portare a un ulteriore rialzo dei salari pari a circa il 3,6% nel primo trimestre e al 5% nel terzo trimestre. Ma in tutto questo, quali saranno le mosse della Bce? Secondo gli analisti, Christine Lagarde è pronta a stringere ancora di più i cordoni della borsa. Sono “molto probabili” aumenti anche di 50 punti base a febbraio e marzo, prima di un (auspicabile?) rallentamento al ritmo di 25 punti base per un tasso finale del 3,25% a maggio. Prima del quarto trimestre del 2024, nessuno si aspetti tagli dei rendimenti. 

Il parere di Nouriel Roubini 

Su questo tema, si è alzata recentemente una voce fuori dal coro, quella dell’economista americano Nouriel Roubini, intervistato da Le Monde qualche giorno fa. “Il consenso generale, cioè quello dei politici, di Wall Street e delle banche centrali – ha ricordato – continua a sbagliare da un anno e mezzo. Avevano a lungo affermato che le pressioni inflazionistiche cui stiamo assistendo sarebbero state temporanee. Tuttavia, non è così. Poi avevano detto che con l’aumento dei tassi si sarebbe calmierata l’inflazione, con un atterraggio morbido per l’economia: anche questo non si sta dimostrando corretto, e lo testimonia il Regno Unito, sull’orlo della stagflazione e con un’inflazione molto alta. Penso – ha aggiunto – che l’atterraggio non sarà morbido, ma duro e associato a stress finanziari. Aumentare i tassi d’interesse mentre l’economia sta perdendo slancio, con un livello complessivo di debito molto più elevato rispetto agli anni ‘70, potrebbe causare un crollo dei mercati azionari e obbligazionari e aggravare così la recessione”.