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Quattro piazze diverse, stessa rabbia

Cile, Iraq, Libano, Hong Kong. Paesi diversissimi accomunati dal perdurare delle proteste contro il potere: c’è una chiave di lettura comune di questo malcontento? Se ne è parlato in un approfondimento organizzato dall’Ispi, lo scorso 7 novembre a Milano

Hong Kong, Santiago del Cile, Beirut, Baghdad, Quito, Barcellona, La Paz, e più recentemente Teheran…

Diventa sempre più ampia la lista delle città attraversate da rivolte popolari di piazza. Piazze che appartengono a Paesi assai distanti tra loro, dove migliaia di persone manifestano il loro dissenso verso una classe dirigente percepita come corrotta e distante, avanzando rivendicazioni sul piano politico, economico e sociale.
Cosa spinge le masse a scendere in piazza oggi? È possibile individuare delle analogie tra le diverse piazze della protesta? Per provare a dare una chiave di lettura su ciò che sta avvenendo l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) ha organizzato un momento di approfondimento, lo scorso 7 novembre a Milano, focalizzandosi in particolare su quattro Paesi molti diversi tra loro: Cile, Hong Kong, Iraq e Libano.
Le piazze rivendicano diritti calpestati non solo da regimi e modelli economici iniqui, ma anche da governi democratici, accusati di corruzione, inefficienza e politiche ingiuste. Si protesta per motivi e con modalità diverse, ma ad accomunare le manifestazioni di mezzo mondo c’è un elemento trasversale: la frustrazione per le ineguaglianze che negli ultimi decenni si sono incuneate tra ricchi e poveri, élite e persone comuni, istituzioni e cittadini. Il rincaro dei trasporti cileni, le tasse su Whatsapp in Libano o la legge sull'estradizione a Hong Kong sono solo le gocce che stanno facendo traboccare i vasi di malcontenti ben più radicati. Alcune risposte sono già arrivate, come le dimissioni del premier Saad Hariri in Libano, il ritiro del disegno di legge a Hong Kong o il mantenimento dei sussidi in Ecuador: a dimostrazione che la piazza può raggiungere i propri obiettivi contingenti, e andare persino oltre.
Nel dare una lettura di questi movimenti, Alberto Martinelli, professore dell’Università degli Studi di Milano, ha chiarito subito che ogni movimento va inquadrato nella propria dimensione interna. “Il contesto in cui avvengono queste proteste – ha detto – fa molta differenza”, così come la capacità di ogni movimento di darsi una leadership. Martinelli ha distinto i leader espressivi-emotivi da quelli strumentali, che hanno però un tratto comune: la diffidenza nei confronti di qualsiasi forma politica organizzata.

Cile, i fantasmi del passato
Entrando più nello specifico e partendo ad analizzare le proteste in Cile, ha portato la sua testimonianza Giovanni Agostinis, professore della Pontificia Universidad Catolica de Cile, in collegamento video da Santiago. Agostinis ha descritto la situazione sul campo, in cui l’intensità delle proteste è diminuita ma non si è ancora arrestata, nonostante le aperture del presidente Sebastian Piñera, e ha sostenuto che la via maestra per un ritorno alla normalità sarebbe quella di avviare un nuovo processo costituente, “soprattutto per marcare una forte discontinuità con il passato e con il modello neo-liberista che ha creato vistose diseguaglianze nel Paese”. Un Paese in cui, ha ricordato Gilberto Bonalumi, ex senatore nonché profondo conoscitore della realtà latinoamericana, l’1% dei cileni possiede circa un terzo della ricchezza nazionale. Bonalumi che ha parlato “della fine di un ciclo iniziato con la fine della caduta del regime del generale Auguro Pinochet”, ha tuttavia manifestato dubbi sul fatto che la strada di una nuova carta costituzionale sia effettivamente percorribile.

Iraq, la longa manus dell’Iran
Spostandoci sul fronte dell’Iraq, la situazione nel Paese è stata inquadrata da Giovanni Parigi, militare della missione Nato, in collegamento da Baghdad. Parigi ha descritto uno scenario di forte tensione, in cui “il governo è letteralmente assediato: l’esecutivo – ha detto – è debole e le proteste non hanno calmato la piazza. Le proteste non vogliono un semplice cambio di governo, ma un cambio di governance, e vanno lette anche alla luce del contesto internazionale in cui l’Iran vuole mantener la propria influenza nel Paese”. I problemi di governance e il ruolo degli iraniani sono stati poi approfonditi da Chiara Lovotti, docente presso l’Università di Bologna. “Uno dei nodi delle proteste – ha spiegato – riguarda la suddivisione del potere, che attualmente avviene secondo una logica settaria”. Le proteste sono nate per chiedere risposte alla disoccupazione dilagante, alla mancanza di servizi e contro un governo percepito come debole e strumentale, ma ultimamente “stanno prendendo una chiara piega anti-iraniana”, Paese che punta sempre di più ad affermare la propria influenza sugli equilibri interni dell’Iraq.

Libano, unità nel chiedere la fine del settarismo
Spostandoci più a ovest la discussione ha poi toccato le proteste in Libano, dove “le persone si sentono ai margini di un benessere sociale che sta diventando più fragile”, ha spiegato in collegamento video da Beirut il corrispondente dell’Ansa, Lorenzo Trombetta. La protesta partita lo scorso 17 ottobre dalla città di Tripoli, nel nord del Paese, si è stesa alle altre città, inclusa la capitale Beirut. Trombetta ha parlato di “proteste trasversali che hanno portato in piazza circa un quarto dell’intera popolazione del Paese”. Secondo Marina Calculli, docente dell’Università di Leiden, “le piazze libanesi protestano in primis contro un modello economico che mischia clientelismo e settarismo”. Il pretesto a far esplodere il malcontento popolare è stato, come già accennato, una tassa sulle telefonate Whatsapp, e la crescita dilagante della protesta riflette “una critica alla logica del modello settario della governance libanese, un modello iniziato nel 1943 e rinnovato alla fine della guerra civile”, agli inizi degli anni 90. Un sistema, quello settario, che secondo Calculli “ha dato forma al modello capitalista libanese chiuso e autoreferenziale”, in cui le alte personalità politiche sono anche i principali conglomerati di interessi economici del Paese. Le dimissioni del premier Saad Hariri non hanno placato le proteste proprio perché “la protesta non contesta solo il governo, ma l’intera logica settaria del sistema”. Questo si riflette nella geografia delle proteste, partite, come detto dalla città di Tripoli, nel nord del Paese e roccaforte del sunnismo legato alla famiglia Hariri; proteste che hanno teso una mano alla città di Tiro, nel sud, roccaforte sciita.

L’escalation di violenza a Hong Kong
La discussione ha infine toccato Hong Kong, il cui problema principale, secondo Guido Samarani, professore dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, “è quello di stare accanto a un gigante. Anche in Cina – ha spiegato – ci sono ogni anno decine di episodi di proteste di vario genere, ma si tratta di manifestazione molto locali” che hanno poco a che vedere con le proteste dell’ex colonia britannica. Nel 2047 Hong Kong torna alla Cina. Come si esce da una situazione che sembra solo avvitarsi sempre di più in una spirale senza soluzione? “Finora la situazione è rimasta circoscritta a Hong Kong, ma ci sono numerosi segnali di aumento della furia della protesta. Tuttavia – ha concluso Samarani – credo che un intervento repressivo possa avere effetti più negativi rispetto ai benefici del ritorno all’ordine”.