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Ritorno al futuro

Il successo della tecnologia deriva dall’immagine che la società, e l’uomo, vuole avere di sé, ma questo approccio pone il problema del limite fino a cui può essere ragionevole spingersi

Confessiamocelo, ultimamente il futuro l’abbiamo più vissuto che progettato. Dunque, va da sé, più subìto che condiviso. Abbiamo, effettivamente, tralasciato negli ultimi decenni una seria riflessione sull’innovazione, dando per scontato che essa fosse l’obiettivo generale da perseguire, e che tutti i problemi si sarebbero risolti da soli. Ma così non poteva essere. E, in effetti, l’innovazione è ormai diventata un problema quotidiano per l’opinione pubblica, al pari della conservazione dell’esistente (ancora resistente). Se le tecniche sono l’aspetto realizzativo della tecnologia che le anima, che a sua volta attinge le sue risorse culturali dall’immaginazione sociologica dell’epoca, non deve sorprendere che, tanto nelle reazioni dell’opinione pubblica, quanto nello stesso progetto tecnico, si possano oggi individuare atteggiamenti culturali particolarmente nitidi e resistenti a un dialogo evolutivo. Al di là delle consapevolezze dei singoli attori, possiamo riconoscere spesso tanto una filo-tecnologia quanto una anti-tecnologia. Io, che non rimpiango il bel tempo andato, che meno male che se n’è andato, e che sono anzi un appassionato della tecnica, sento però di dover resistere alla patologia che potremmo denominare tecnofrenia e che risale a elaborazioni intellettuali tipiche della modernità sei-settecentesca. Più che il mito del progresso, il problema è il meccanicismo riduzionistico, nato nel Settecento: automi meccanici approntati da artigiani che amavano stupire nobili e borghesi sembravano imitare la natura, animali reali, mentre invece erano questi a esser piuttosto trattati come macchine e nulla più. E se nel Novecento, in una fabbrica meccanizzata da Taylor il posto del gorilla ammaestrato (sua l’espressione) finiva per esser preso da qualche essere umano, la speranza di vita poteva anche raddoppiare per un uso umano della tecnica, parafrasando Norbert Wiener, il padre spirituale del mondo cyber. Ma non basta dire che l’esito della tecnica dipende dall’uso che se ne fa.

Narcisio si specchia nella tecnologia
Parliamo un po’ anche del narcisismo della modernità, di un homo chiuso nel suo solitario perseguimento della massimizzazione del benessere immediato, usando tutto e tutti, persino se stesso. Un individuo che sente la propria libertà limitata solo da quella degli altri che si trovino nel suo raggio d’azione: quasi che la corsa alla felicità di ciascuno sia un gioco a somma zero per tutti. Potenziatelo quanto volete, con ogni tecnica, ma la socievolezza di questo Narciso farà sempre a pugni con l’esercizio della sua libertà, come ogni impedimento alla realizzazione di un proprio sé astratto. Il punto è, dunque, che, espunte le relazioni umane, nella corsa alla felicità questo individuo si presenta nudo alla meta, come un Io che si pensasse altrove rispetto a ogni altra persona e a ogni cosa, persino rispetto al proprio corpo: come la colomba di Kant che, sentendo la fatica della resistenza dell’aria, pensasse di poter volare meglio nel vuoto. E se il traguardo da raggiungere per tutti diventa quel “uno su mille ce la fa”, che ne sarà di tutti noi altri novecentonovantanove? E se la corsa dei mille Narcisi è poi alterata in partenza, come non vedere che il problema diviene innovare senza amplificare il contrasto fra eguaglianza e merito?
Non basta, dunque, usare la tecnica “per il bene”, ma bisogna interrogarsi sulla logica che stiamo seguendo e per quale futuro sviluppare le tecniche. Il problema tecnologico, insomma, è quale sia il futuro che davvero vogliamo. È un urgente un ritorno al futuro.