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Welfare aziendale, 10 domande all’esperto

Benefici non solo economici, ma soprattutto strategici nella relazione con i dipendenti, con il sindacato e con il territorio. A delineare il livello di diffusione di questo strumento nel nostro Paese e gli scenari evolutivi in termini di generazione di valore è Giovanni Scansani, co-fondatore di Valore Welfare

ll welfare aziendale non è più un fenomeno riservato ai soli dipendenti delle grandi aziende. In Italia, in questi ultimi anni, l’investimento in piani e servizi di welfare ha fatto molta strada, complice in primis la crisi economica che ha assottigliato le buste paga, ma anche grazie al fatto che per alcuni ambiti oggi tutte le aziende possono godere di benefici fiscali.
Il settore è in movimento e offre diverse opportunità. Consulenti, rappresentanti delle istituzioni, associazioni di categoria e sindacati sono in questo periodo impegnati a fare il punto sull’argomento. Ne abbiamo parlato con Giovanni Scansani, co-fondatore e amministratore unico di Valore Welfare, società specializzata nella consulenza indipendente per la costruzione e l'implementazione di piani di welfare aziendale (Pwa).

  1. Qual è lo scenario attuale del welfare aziendale nel nostro paese?
    Siamo in una fase cruciale e molto interessante. Da un lato il welfare state non riesce a ricalibrarsi sulle mutate condizioni economico-sociali e quindi a rispondere appieno ai nuovi bisogni e dall’altro il lavoro in quanto tale sta vivendo una trasformazione epocale. Le persone, con i loro saperi, le loro inclinazioni e il loro vissuto, sono sempre di più al centro di policy aziendali attente alle complessive condizioni di benessere dei dipendenti, dentro e fuori dal perimetro dell’impresa. In questo quadro le aziende, facendo leva sui benefici fiscali e contributivi e adottando corrette impostazioni di people strategy, giocano un ruolo integrativo e, nei casi più evoluti, integrato con l’offerta complessiva del welfare pubblico. Le aziende più responsabili, a prescindere dalla loro dimensione, hanno capito che implementare Pwa (Piano di welfare aziendale) comporta benefici, non solo economici, ma soprattutto strategici nella loro relazione con i dipendenti, con il sindacato e con il territorio, e dunque capaci di generare valore per tutti gli stakeholder.

    2.    Quali sono le novità in materia normativa?
    Negli ultimi tre anni la diffusione del welfare aziendale è stata favorita attraverso l’approvazione di diverse norme introdotte per incentivare l’utilizzo dei benefit ampliandone i confini o per sostenere formule organizzative allineate ai bisogni di conciliazione tra vita e lavoro, il tutto in un’ottica sostanzialmente collegata all’obiettivo di un auspicabile recupero di produttività. Le novità sono molte e possiamo ricordarne almeno tre: la contrattabilità di tutti i servizi di welfare all'interno delle imprese e la loro accessibilità anche tramite strumenti innovativi come i welfare voucher; l’ampliamento del menu dei servizi defiscalizzati (estesi anche alla mobilità individuale); la possibilità di "welfarizzare" i premi di risultato (PdR).

    3.    Quante sono le aziende in Italia che hanno introdotto Piani di Welfare?
    Non esiste una banca dati centrale e istituzionale che ci possa fornire un dato univoco e certo che consenta di misurare esattamente il fenomeno. Sono state fatte molte ricerche e analisi di trend che però non possono che registrare dei dati a campione. Grazie ad essi, però, conosciamo quantomeno dove e come il fenomeno si stia muovendo. Senz’altro il welfare aziendale è molto diffuso nelle grandi imprese nelle quali è spesso presente da lunghissimo tempo, come componente di una solida cultura d’impresa: in Italia, l’origine delle politiche di sostegno ai lavoratori, per come tuttora in parte le conosciamo, risale almeno agli anni ’30 del secolo scorso, mentre l’origine dei servizi “sociali” d’impresa risale alla metà del XIX secolo. Il WA oggi è presente in quasi tutti i settori produttivi, dal manifatturiero al mondo dei servizi e sarà sempre più trasversale anche rispetto alla dimensione delle aziende, mentre permane un forte gap territoriale tra centro-nord e sud del Paese.

    4. Quali sono i dati di penetrazione del welfare aziendale?
    L’unico dato certo di cui si dispone a livello nazionale è quello numerico del deposito dei contratti che mirano agli sgravi fiscali previsti per i premi di risultato. Secondo la più recente rilevazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, al 15 febbraio scorso risultano attivi 8.899 contratti. Tra questi vi sono 3.645 contratti che prevedono misure di WA. Complessivamente parliamo del 41% dei contratti depositati e questa incidenza è sinora in crescita benché, rispetto al numero delle imprese che potenzialmente potrebbero avvalersi di questa opportunità, stiamo parlando di un numero ancora molto basso. Al di là di questa rilevazione, non esistono dati ufficiali che ci dicano quanti lavoratori abbiano effettivamente optato per la conversione del PdR e in quale misura. Su questo esistono solo i dati che comunicano alcuni operatori e sappiamo che la pratica della conversione è ancora bassa (circa il 20% in media). Ma siamo solo all’inizio della diffusione di questa nuova modalità di corresponsione della parte variabile della remunerazione e il dato è senz’altro destinato ad alzarsi negli anni a venire.

    4.    Quali sono gli ostacoli alla diffusione del welfare aziendale?

    Se guardiamo al nostro tessuto produttivo, il WA non è ancora diffuso come potrebbe e come dovrebbe essere. L’ostacolo, a prescindere da settori e geografie, sta nella dimensione media delle nostre imprese e nella cultura degli imprenditori, anche se su questo le associazioni che li rappresentano stanno compiendo una meritoria opera di diffusione delle prassi e delle competenze (è il caso di Assolombarda e dell’Osservatorio Welfare Aziendale del quale facciamo parte).

    5.    Quali sono gli ambiti di azione possibile da parte delle aziende?
    Gli ambiti sono sostanzialmente due: Piani di Welfare Aziendale (PWA) “on top” sulla retribuzione, quindi finanziati dall’impresa in via unilaterale o contrattata e iniziative di WA che derivano dalla conversione del PdR, in tal caso sempre oggetto di contrattazione se si vuole agganciarle alla defiscalizzazione e alla decontribuzione. In quest’ultimo caso la fonte di finanziamento è costituita dalla parte variabile della retribuzione del lavoratore, il quale, in sostanza, “si paga” il welfare.

    6.    Cosa sono i Piani di Flexible Benefit?
    I PWA vanno distinti dai Piani di Flexible Benefit (PFB) che rappresentano interventi di sostegno alla remunerazione con finalità “sociali” non predefinite e che, in maniera libera (flexible), il lavoratore costruisce disegnando il suo personale “pacchetto” di welfare.
    Sembrerebbe la migliore delle soluzioni, ma - come dimostra la recente ricerca Censis-Eudaimon - se meno di un lavoratore su cinque (17,9%) ha una conoscenza precisa del WA, se quasi il 24% non sa neppure di cosa si sta parlando e se proprio i lavoratori con retribuzioni più basse appaiono essere quelli che allocano il budget di cui dispongono su servizi non utili alla costruzione di maggiori tutele, per sé e per il loro nucleo familiare, allora ci rendiamo conto di come il tema culturale riguardi anche chi beneficia di queste policy e come i lavoratori debbano essere guidati nella fase di scelta dei servizi più idonei. Il WA deve poter introdurre (o rafforzare) alcuni “pilastri” in grado di offrire tutele e non (o non soltanto) occasioni di consumo fini a se stesse (buoni benzina e buoni per gli acquisti più vari cui spesso si accede con logiche e-commerce sganciate da consapevolezze più solide).

    7.    Su cosa deve agire l’azienda perché il welfare aziendale colga nel segno?
    Se un’azienda intende avviare una programma di WA che davvero colga nel segno deve oggi considerare l’essenziale necessità di fare formazione ai lavoratori anche su questi temi perché, anche così, si dimostra il rilievo e l’attenzione che l’azienda pone sulle politiche di sostegno e di risposta ai bisogni dei suoi collaboratori. Due temi su tutti: la previdenza complementare e la sanità integrativa incluse le polizze Ltc (Long term care – ndr).
    Dipendenti più consapevoli di questi e altri aspetti valoriali del WA e al di là dei soli benefici economici, saranno ancora più grati alla propria azienda le cui policy di welfare avranno a quel punto saputo generare maggiori effetti di reciprocità in grado di reiterarsi nel tempo e quindi di contribuire alla sostenibilità, anche finanziaria, degli interventi di WA.
    Costruire un percorso di WA privo di una sottostante politica di tutele non è molto lungimirante soprattutto se i benefit derivano dalla welfarizzazione del PdR, in quanto all’assenza di tutele sostenute da una policy strutturata si somma l’effetto dell’aleatorietà del welfare legato ai risultati dell’impresa che non è certo.
    Il WA, posto che i bisogni delle persone non sono aleatori ma, pur nella loro evoluzione, sempre presenti, deve rappresentare uno stabile investimento aziendale la cui sottostante visione è di lungo periodo. E’ legato alla vita dei lavoratori e ai mutevoli bisogni che essa esprime lungo il proprio personale "welfare life cycle". Significa intervenire e fornire servizi utili a migliorare la vita dei dipendenti nelle diverse fasi di questa al fine di migliorare il clima aziendale, diminuendo l’assenteismo e il turnover, aumentando engagement, collaborazione e qualità del lavoro.
    Il tutto, ben inteso, non nell’ottica di un assistenzialismo paternalistico e deresponsabilizzante, ma attivando quella piena reciprocità che queste prassi sono capaci di generare e i cui effetti si traducono in contribuzioni misurabili per l’azienda.

    8.    Quali sono le opportunità e le criticità per le Pmi?

    La criticità principale è come detto di tipo culturale perché le innovazioni normative e le semplificazioni intervenute anche sul fronte della contrattazione di secondo livello, come nel caso degli accordi-quadro territoriali, hanno messo anche queste aziende nelle condizioni di accedere pienamente al WA. Inoltre è possibile costruire un PWA anche sulla base di un semplice regolamento, in via unilaterale, ancorché con valenza negoziale e quindi impegnativa per l’impresa e ciò senza la necessità di interfacciarsi con il sindacato che spesso non è presente nelle realtà di piccola taglia.
    Una notevole semplificazione è stata realizzata prevedendo la possibilità di utilizzare il “welfare voucher”, uno strumento principalmente introdotto proprio per le Pmi.
    Un’altra opportunità che queste imprese possono sfruttare (e negli ultimi anni si sono prodotti interessanti esempi) è quella legata alla costruzione di Reti il cui obiettivo è mettere a fattor comune i bisogni dei lavoratori con l’offerta dei servizi presenti sul territorio, in una logica sussidiaria che coinvolge il tessuto produttivo e quello dell’economia locale, facendo del WA una leva capace di sostenere anche il welfare della comunità nella quale l’impresa è inserita. Queste casistiche che nelle loro manifestazioni più evolute sono espressione di reale innovazione sociale, hanno il pregio di generare esternalità positive che dovrebbero essere maggiormente incentivate (penso, ad esempio, all’offerta di servizi allestiti dall’impresa ed accessibili a tutti, come nel caso degli asili nido aziendali per la cui reticolazione sul territorio occorrerebbero incentivi che ne agevolino il finanziamento).

    9.    Quali sono i soggetti che possono favorire la diffusione del welfare aziendale in Italia?
    Ovviamente le aziende sono le protagoniste principali e più esse sapranno comunicare e rendicontare le proprie prassi, più si diffonderà l’interesse anche da parte delle imprese più attardate, in una sorta di effetto benchmark che potrà prodursi a livello di settore, di territorio e di dimensione aziendale. Tra le imprese che possono guidare questo percorso non vanno dimenticate quelle del Terzo Settore che proprio perché hanno il welfare nel loro core-service non potevano restare ancora a lungo lontane da queste prassi e, anzi, in molti casi hanno finalmente compreso che quello del WA è per loro anche un possibile canale per espandere la propria attività, posto che tali imprese possono essere, ad un tempo, erogatrici di servizi in grado di rispondere ai bisogni dei lavoratori e delle loro famiglie e fornitrici delle imprese cui offrire di servizi di supporto al WA (non a caso alcune importanti espressioni del Terzo Settore si sono attrezzate su entrambi i fronti).
    Dove c’è il sindacato c’è più WA il che ci dice che il confronto tra le parti sociali è fondamentale per la diffusione e la giusta impostazione di queste politiche e che dunque il sindacato è l’altro grande protagonista.
    Un ruolo diffusivo va poi riconosciuto sia agli operatori che offrono servizi di consulenza mettendo a disposizione le competenze necessarie per avviare i programmi di WA (advisor specializzati, consulenti del lavoro e associazioni datoriali), sia alle realtà che offrono servizi gestionali per l’esecuzione dei PWA (i cd. Provider) e all’associazione che li rappresenta (AIWA).
    Ovviamente non va dimenticato il Legislatore il quale, nei tempi più recenti, ha mostrato una capacità di ascolto delle istanze provenienti dal mondo del lavoro che si è tradotta in interventi di rilevante ed innovativa portata.

    10.     Se il “vero” welfare aziendale è un investimento, è possibile misurarne il ritorno in termini di valore?
    Questo aspetto è essenziale per la sostenibilità del WA. Alcuni studi hanno offerto qualche spunto di riflessione e alcuni operatori, così come alcune aziende, hanno provato a misurare la “redditività” dell’investimento stanziato per il WA. C’è chi dice che renda cinque, sette o anche dieci volte, ma come si sia giunti a questa conclusione non è dato sapere. Per cercare di dare una risposta scientifica a questa domanda abbiamo avviato, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, un Laboratorio di ricerca (“Welfare Benefit Return-Lab”) che, per la prima volta ed in collaborazione con otto importanti aziende (sono: Aeroporto di Bologna, Axa Italia, Bper Banca, CIRfood, Havas Media, Iccrea Banca, Italtel, Milano Serravalle-Milano Tangenziali - NdR), si prefigge l’intento di arrivare a definire una metodologia per la misurazione del “ritorno di valore” che le iniziative di WA possono generare. La “biodiversità” delle imprese che partecipano al Laboratorio potrà dare conto anche della trasversalità nell’applicazione della metodologia il che equivarrà a renderne più robusta la strutturazione e l’affidabilità, perché questo vorremmo che diventasse: uno strumento gestionale per il WA a disposizione dei manager e delle imprese.