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I rischi dell’errata applicazione del massimale contributivo

Secondo la norma, il datore di lavoro è responsabile del corretto assolvimento dell’obbligo contributivo relativo ai propri dipendenti, anche nel caso di mancata o errata comunicazione di mutate circostanze da parte del dipendente. In questo caso può però chiedere al lavoratore stesso il risarcimento del danno subìto

In occasione di un precedente articolo su questa testata, si era evidenziata l’importanza di una corretta “profilazione” del lavoratore subordinato ai fini della gestione contributiva del rapporto di lavoro.
E infatti, come noto, le previsioni di cui alla Legge n.335/1995, che riforma il sistema pensionistico italiano, stabiliscono che, per i lavoratori dipendenti in possesso di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995, la contribuzione previdenziale debba essere determinata in misura percentuale rispetto all’imponibile contributivo, senza la previsione di alcun massimale, contrariamente a quanto avviene, invece, per coloro che siano privi di anzianità alla medesima data, in riferimento ai quali il calcolo dei contributi Ivs è determinato nei limiti di un massimale annualmente oggetto di rivalutazione.
Al fine di consentire al datore di lavoro il corretto assolvimento delle obbligazioni contributive, all’assunzione il lavoratore è tenuto a rilasciare una specifica dichiarazione attestante il possesso o meno di anzianità contributiva alla data del 31 dicembre 1995.
Per le medesime motivazioni, il lavoratore è, altresì, obbligato a tempestivamente comunicare al datore di lavoro il sopravvenire di circostanze che intervengono a mutare il contenuto – e gli effetti – di una dichiarazione precedentemente resa.

Ma cosa succede in ipotesi il lavoratore abbia rilasciato una dichiarazione errata ovvero si sia “dimenticato” di comunicare al datore di lavoro eventuali aggiornamenti intervenuti in merito al suo “status” contributivo, e pertanto il datore di lavoro abbia erroneamente applicato la disciplina vigente in materia di massimale contributivo?

Non sono infatti rare le ipotesi in cui il lavoratore (più per mancanza di consapevolezza della questione o per superficialità che per mala fede) si dimentichi di aver svolto una qualche attività lavorativa soggetta a contribuzione in età giovanile (ad esempio durante gli studi universitari), ovvero non sia consapevole del fatto che ai fini dell’applicazione del massimale rilevi la contribuzione previdenziale versata anche a gestioni differenti da quella Fpld istituita presso l’Inps o, ancora, non comunichi al datore di lavoro di aver esercitato l’opzione per il calcolo e la liquidazione della rendita pensionistica secondo le regole del sistema contributivo.

L’errata dichiarazione resa dal lavoratore
In ipotesi in cui il lavoratore abbia erroneamente dichiarato di non vantare alcuna contribuzione ante 1° gennaio 1996, il datore di lavoro si troverà nella situazione di aver calcolato la contribuzione Ivs nel limite del massimale quando, nei fatti, tale massimale non avrebbe dovuto essere applicato sin dalla costituzione del rapporto di lavoro.
In ragione del descritto errore, l’ente previdenziale sarà legittimato ad agire nei confronti del datore di lavoro per il recupero della contribuzione omessa, diritto che si prescrive nell’ordinario termine quinquennale.
In tale ipotesi il datore di lavoro, in qualità di sostituto previdenziale, sarà chiamato dall’ente previdenziale a farsi carico dell’intera contribuzione omessa, e pertanto anche della quota che sarebbe stata a carico del lavoratore, nonché delle sanzioni civili per il tardivo versamento e degli eventuali interessi moratori, con esplicita esclusione del diritto di rivalsa nei confronti del lavoratore per quanto attiene la possibilità di trattenere la quota contributiva che sarebbe stata a suo carico, conformemente alle previsioni di cui all’art. 23 della Legge n. 218/1952.
Tuttavia, ciò che non potrà essere trattenuto al lavoratore a titolo di “contribuzione previdenziale” a suo carico, potrà essergli richiesto, nel rispetto delle disposizioni del codice civile, a titolo di risarcimento del danno dallo stesso cagionato al datore di lavoro in ragione della omessa comunicazione. Parimenti, a titolo di risarcimento del danno potrà essere richiesto al lavoratore un importo pari alle sanzioni (maggiorate degli eventuali interessi moratori), sostenute per il tardivo versamento dei contributi previdenziali.
Peraltro, è doveroso segnalare come la richiesta datoriale, costituendo una richiesta di risarcimento del danno e non un diritto di rivalsa sulla quota di contribuzione previdenziale che sarebbe stata a carico del lavoratore, non consentirà a quest’ultimo di dedurre il corrispondente importo dal proprio imponibile fiscale ai fini del calcolo delle imposte sul reddito delle persone fisiche nonchè delle addizionali regionali e comunali.

La – non comunicata – successiva acquisizione di contribuzione ante 1996
È il caso, ad esempio del lavoratore che in un primo momento dichiari correttamente al datore di lavoro di non avere anzianità contributiva al 31.12.1995 ma, successivamente, vada a riscattare anni di laurea che si collocano in tutto o in parte in periodi antecedenti il 1° gennaio 1996.
In caso di mancata puntuale informazione da parte del lavoratore al datore di lavoro, a quest’ultimo non sarà consentito di “disapplicare” il massimale contributivo con decorrenza dal mese successivo a quello di presentazione della relativa domanda di riscatto, con conseguente diritto dell’ente previdenziale ad agire – anche in tale ipotesi – per il recupero della contribuzione omessa (e correlate sanzioni/interessi), diritto che si prescrive sempre nel rispetto del termine quinquennale.
Anche in tale ipotesi il datore di lavoro potrà richiedere al lavoratore il risarcimento del danno subìto, che potrà essere quantificato in un importo pari alla quota di contribuzione che sarebbe stata a carico del lavoratore maggiorata degli interessi per tardivo versamento e degli eventuali interessi moratori.


Opzione per il sistema contributivo

Infine, merita altresì di essere menzionato il caso di lavoratore che, pur in possesso di anzianità contributiva al 31.12.1995, conformemente alla disciplina di cui all’articolo 1, comma 23, della legge n. 335/1995, abbia regolarmente esercitato la propria opzione per la trasformazione e la liquidazione della pensione secondo le regole contributive.
Per qualsivoglia motivo il datore di lavoro non sia informato dal lavoratore dell’esercizio dell’opzione in esame, lo stesso continuerà a calcolare la contribuzione Ivs senza applicazione del massimale contributivo, con conseguente diritto delle parti (datore di lavoro e lavoratore) al recupero di quanto versato in eccesso, diritto che si prescrive nel termine decennale.
In caso di avvenuta prescrizione di determinati periodi contributivi, il datore di lavoro sarà legittimato ad agire nei confronti del lavoratore per il risarcimento del danno, quantificabile in misura pari ai contributi versati – e non dovuti – a carico del datore di lavoro che non potranno essere più recuperati.

Avendo verificato con mano nel recente periodo come le ipotesi di errata o mancata dichiarazione da parte del lavoratore non siano casi isolati, e stante le rilevanti conseguenze di carattere economico che dalle stesse discendono, è ragionevole aspettarsi nel prossimo periodo un’inflazione del contenzioso giudiziale correlato a tale tema, contenzioso che sarebbe stato possibile evitare (a vantaggio di tutti) se solo l’Inps avesse implementato sistemi funzionali alla verifica “in tempo reale” della situazione contributiva dei lavoratori, pur garantendo il pieno rispetto del loro diritto alla privacy ed evitando al datore di lavoro di ricorrere alle aule giudiziarie per non subire danni a lui in nessun modo imputabili.