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Gli elementi di positività per le Pmi

Dopo le crisi del 2008 – 2011 le Pmi hanno introdotto una serie di accorgimenti finanziari e parametri di controllo che hanno permesso lentamente di raggiungere nel 2019 un livello di salute delle aziende sostanzialmente positivo. Anche se i risvolti economici della crisi pandemica stanno avendo un impatto molto pesante sui rating e la solidità, si auspica che le prassi ormai consolidate consentano una rapida ripresa

Il Covid è arrivato come un’onda a travolgere il percorso di crescita compiuto dalle Pmi italiane negli ultimi cinque anni. Dopo la crisi del 2008 e la ricaduta del 2011, le imprese avevano avviato una serie di misure che avevano permesso di rimettere in sesto gli aspetti finanziari, con una generale crescita del merito di credito e del rating. In particolare dal 2015 si era assistito a un rafforzamento che si traduceva in una discreta percentuale di Pmi in classe positiva, dalla tripla B fino alla tripla A.
L’annus horribilis 2020 ha vanificato gli sforzi di crescita ma, guardando il bicchiere mezzo pieno, ci sono due elementi di positività: il primo riguarda il fatto che il rafforzamento degli economics negli ultimi anni ha reso più stabili le aziende di fronte agli esiti della pandemia, il secondo che l’estemporaneità del Covid e la crescita attesa già per questo 2021 potrebbero far ritenere il 2020 una parentesi negativa dalla quale le aziende hanno già gli strumenti pronti per riprendersi, gli stessi che in questi anni ne hanno permesso la crescita.

Fino al 2019 una crescita lenta e costante
Una fotografia della situazione complessiva è stata realizzata da Modefinance che ha analizzato un campione di 85mila aziende tra quelle che a novembre scorso hanno depositato i bilanci 2019. Rispetto al rating, il confronto tra gli ultimi quattro anni denota una progressiva crescita di livello, con un graduale “svuotamento” delle classi da D a CCC (da circa il 10,5% delle imprese nel 2016 al 9% del 2019) e una presenza più folta di aziende con un rating da tripla B a tripla A (41% nel 2016, 44% nel 2019). Nello stesso periodo era migliorata anche la solvibilità, con un rapporto di indebitamento (leverage) rispetto a capitali di terzi che nel periodo osservato è passato da 3,4 a 2,7, avvicinandosi lentamente al valore di 2 che indica un indebitamento bilanciato. Anche per questo parametro si assiste a un progressivo spostamento delle piccole e medie imprese osservate, con il numero di quelle con leverage superiore a 5 punti che è passato da 30mila nel 2016 a 24mila nel 2019 e di quelle tra 0 e 2 passate da 28mila a 31mila. Un terzo parametro che conferma il lento e costante miglioramento della salute finanziaria delle imprese è il dato sul confronto tra le attività e passività correnti (current ratio mediano), ritenuto positivo se si colloca oltre l’1,5%: dal 2016 al 2019 l’indice medio è passato da 1,33 a 1,40. Infine, il parametro della redditività, che è rimasto costante negli ultimi anni sul valore complessivamente positivo del 10%. Secondo l’analisi di Modefinance, nel periodo osservato le imprese in perdita erano diminuite da oltre 10mila a meno di 9mila: nel trend generale si è osservato, inoltre, che il valore mediano del fatturato si attestava nel 2019 sui 49 milioni di euro, contro i 41 del 2016, con una progressiva crescita della classe delle aziende medie rispetto alle piccole e in particolare di quelle più strutturate rispetto alle microimprese, che davano segni di maggiore sofferenza con un più elevato tasso di chiusura.

Gli strumenti finanziari possono ridurre i tempi di ripresa
A fronte del panorama tutto sommato positivo appena disegnato, il Covid ha tagliato in maniera trasversale la crescita delle Pmi. L’elaborazione delle previsioni è stata realizzata utilizzando modelli basati sulle tecnologie di intelligenza artificiale e data science. Focalizzandosi sui rating, il dato complessivo vede le imprese collocate nelle classi più rischiose passare dal 10% a 55%, con le C che da 1,11% balzano a 13,8% del numero totale e le doppia C da 2,81% a 17,45%; il rating mediano passa dalla classe doppia B alla tripla C. Analizzando l’“onda” che sposta verso il basso il rating delle aziende, si osserva che a fronte di un 1,36% di Pmi che migliorano la propria posizione e di un 15% il cui rating rimane invariato, il 28% scende di una classe, circa il 25% scende di due classi, il 20% di tre e sono poco più del 10% quelle che ne perdono quattro o cinque.
Ciò che può dare una piega meno negativa al quadro generale è che negli ultimi anni è cresciuta la capacità delle Pmi di accedere a forme alternative di credito e a una migliore gestione dei flussi di cassa, strumenti acquisiti – con altri – che certamente permetteranno di ridurre i tempi della ripresa e, in molti casi, di far rientrare le Pmi nei dati di rating pre-Covid.