italia-il-rischio-della-deriva-xenofoba

Italia, il rischio della deriva xenofoba

Il pregiudizio come radice del razzismo. La criminologia mette in luce la perversa relazione tra cultura e discriminazioni sociali. Per questo è nato Human Criminology, un gruppo di lavoro accademico che punta a studiare e smascherare gli stereotipi con radici etnocentriche

Razzismo, privazione della libertà, genocidi. I diritti umani sono un mondo spesso trascurato dalla criminologia mondiale. Secondo uno studio del criminologo George Yacoubian, in quasi un decennio, tra il 1990 e il 1998, le riviste internazionali specializzate in criminologia hanno dedicato al crimine di genocidio appena lo 0,001% del totale degli articoli. Eppure, la cronaca degli ultimi anni mostra i segni di una escalation di intolleranza e violenza che hanno come radice un pregiudizio etnocentrico, che rendono ancora attuale i crimini compiuti pochi decenni fa, dall’olocausto, alle pulizie etniche in Africa e nei Balcani, a quelle in corso contro i Rohingya in Myanmar. “La cultura da sola non ripara dalla stupidità” ha detto Isabella Merzagora, professore ordinario di criminologia e presidente della Società italiana di criminologia, in occasione della presentazione del gruppo Human Criminology all’Università Statale di Milano il 29 giugno. Si tratta di un centro di studi che è nato in seno alla Società italiana di criminologia, con l’obiettivo di interpretare questi fenomeni razziali. Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International, la società italiana si sta caratterizzando per una deriva sempre più veloce verso il razzismo, odio e violenza. Le vittime sono semplicemente le persone percepite come “diverse”, che vengono isolate, discriminate, uccise. È nata per questo l’esigenza del Barometro dell’odio con cui Amnesty international ha monitorato la massiccia presenza di messaggi di odio presenti sui profili Facebook e Twitter dei candidati alle ultime elezioni. Sul tema si sono confrontati Maurizio Ambrosini dell’Università di Milano, Olindo Canali della Sezione Protezione internazionale del tribunale di Milano, Roberto Cornelli dell’Università di Milano Bicocca, Carlo Alberto Romano dell’Università di Brescia, Betti Guetta del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano, Guido Travaini dell’Università San Raffaele di Milano, Alfredo Verde dell’Università di Genova.

Lo stereotipo del delinquente-nato
Per Isabella Merzagora, la matrice di tutti i razzismi è l’antisemitismo, perché ha ormai una storia millenaria difficile da estirpare. La criminologa ha dedicato largo spazio al pensiero di Cesare Lombroso, uno dei padri degli studi criminali e fondatore dell’antropologia criminale, che vedeva nelle “razze colorate” il gradino più basso della gerarchia evolutiva. Così, anche i caratteri del delinquente tipico erano normali per le razze inferiori, mentre anormali per gli “uomini civili”. Lombroso era espressione della cultura dell’epoca, di idee largamente radicate nella società europea, che anticiparono in gran parte l’ideologia nazista. Merzagora, ricordando il terribile contributo della criminologia al razzismo, ha sottolineato che non esiste una relazione diretta tra i deliri pseudo-scientifici lombrosiani e l’ascesa del nazismo, perché il razzismo “era diffuso in ambito scientifico”. Detto altrimenti, “il nazismo non aveva bisogno di Lombroso e neppure lo voleva” a tal punto che, paradossalmente, nel 1938 Julius Evola, nella rivista La Difesa della razza, indicò Lombroso come membro di un sodalizio di pericolosi scienziati ebrei. La criminologia ha avuto quindi grandi responsabilità nel radicare nella società la convinzione che esista il “delinquente-nato”, ossia un fattore genetico che determini un comportamento pericoloso per la società. “I tribunali nazisti tra il 1939 e il 1945 pronunciarono 16.000 sentenze di morte, mentre 14.000 delinquenti abituali furono uccisi nei campi di concentramento. Alfredo Verde, dell’Unità di criminologia dell’Università di Genova, ha ricordato che il Manifesto della Razza ebbe il sostegno determinante del mondo della cultura: professori, giornalisti e scrittori in testa. Per sconfiggere il razzismo non basterà quindi la cultura, se non si mette al centro lo studio della sofferenza e del disumano, con particolare attenzione al mondo carcerario.

I social smascherano il razzismo
Il pregiudizio biologico è purtroppo ancora presente nella società contemporanea, soprattutto quella con una spiccata vocazione tecnologica e digitale. In occasione della presentazione del gruppo Human Criminology sono stati presentati i dati di una ricerca condotta dalla cattedra di criminologia dell’Università di Milano dedicata alla reazione collettiva espressa tramite i social media in risposta a specifici episodi dal contenuto xenofobo. Un’analisi comparativa di tre diversi casi di cronaca nera è stata mostrata da Guido Travaini, dell’Università Vita e Salute San Raffaele di Milano in collaborazione con Hemes Bay: Idy Diene, straniero ucciso da un italiano, Jessica Valentina Faoro, italiana uccisa da un connazionale, Pamela Mastropietro italiana uccisa probabilmente per mano di un nigeriano. Per ciascun caso sono stati analizzati i topic trattati nei contenuti condivisi, la tipologia dei commenti, fonti eventualmente allegate ai contenuti condivisi, relazione tra sentimenti dei contenuti e tipologia dei commenti, sentiment dei contenuti pubblicati e principali attori, analisi qualitativa dei commenti. Il primo elemento che è stato messo in luce è che la gran parte dei commenti social non mostra nessun collegamento con il fatto accaduto. Si verifica una sensazione di distanza dalla vittima e dal fatto commesso, così la vittima diventa solo strumentale per parlare di altro. Si verifica la stretta connessione tra un’alta reattività e un ridotto tempo di ragionamento. Per questo, la presenza di uno straniero è il fattore scatenante per parlare di politiche migratorie. L’elemento etnocentrico legato all’aspetto razziale diventa il tema di discussione centrale rispetto alla gravità del fatto commesso. A questo si aggiunge una vasta critica alle istituzioni, che mostrano ancora una volta un totale distacco dal fatto commesso. Alla luce di questi elementi, è evidente che il caso Faoro mostri meno interazioni, anche se presenta più commenti solidali verso la vittima.

Migrazioni, quanti malintesi
I commenti social ai fatti di cronaca nera mettono in luce l’esistenza di un pericoloso pregiudizio tra migranti e criminalità, che tuttavia non corrisponde alle reali preoccupazioni degli italiani. Roberto Cornelli, professore di criminologia dell’Università di Milano-Bicocca, ha fondato la sua analisi sui dati Istat e Eurobarometro. La principale preoccupazione degli italiani non è la criminalità, né il terrorismo, né tantomeno l’immigrazione. In cima troviamo il lavoro e l’economia, con l’andamento del costo della vita. Al contrario, ha sottolineato Cornelli, siamo di fronte a una tendenza della politica che punta a misure di autoprotezione, tecnologie di sorveglianza, paesaggi urbani difensivi e sicurezza anti-terrorismo. Il grande rischio è che spendendo risorse per la difesa dall’esterno, finiremo per sottovalutare i pericoli interni. L’attenzione verso l’esterno è dimostrata anche dai pregiudizi rispetto alle politiche migratorie in Italia. Maurizio Ambrosini ha mostrato come gli italiani percepiscano in modo sbagliato il fenomeno migratorio. Prima di tutto l’errata percezione che gli stranieri in Italia siano il 26% della popolazione, con un dato reale inferiore a un residente su dieci. C’è poi la diffusa credenza che i governi di centro-destra siano più ostili ai migranti: in realtà, hanno attuato le principali sanatorie di migranti: nel 2002-2003 oltre 600.000 sanati con al governo Bossi-Fini, e ancora circa 300.000 nel 2009 con al governo Roberto Maroni. Infine è largamente diffusa la credenza che in Italia sia in corso una islamizzazione del Paese: tra le prime dieci comunità in Italia ci sono romeni, cinesi, ucraini, filippini e indiani e moldavi, a cui si aggiungono migranti provenienti dai Paesi musulmani: Marocco, Bangladesh, Egitto e, con le dovute cautele, Albania.

Una guerra all’antisemitismo
Betti Guetta, dell’Osservatorio antisemitismo e Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano ha messo in luce come gli stereotipi sugli ebrei siano ancora largamente diffusi nella società italiana. Prima di tutto gli ebrei sono visti come lobby dal grande potere politico ed economico. Il 56% degli italiani è convinto che gli ebrei siano bravi negli affari, con una particolare presenza nella finanza mondiale. Inoltre gli ebrei sono sempre più presenti nelle teorie complottistiche globali. Secondo Guerra, il Giorno della Memoria è occasione per attacchi contro la comunità ebraica, a cui si aggiunge ogni notizia che abbia qualche relazione con la comunità ebraica. Attacchi contro gli ebrei sono stati registrati sui social per la nomina a senatrice a vita di Liliana Segre, oppure l’omicidio Mireille Knoll, la donna sopravvissuta alla Shoah, accoltellata e data alle fiamme a Parigi, fino agli insulti a Emanuele Fiano. Questo dimostra che l’antisemitismo è ancora presente nella società. Le occasioni più frequenti per esternare l’odio contro gli ebrei vengono dagli aggiornamenti del conflitto Israelo-Palestinese. Guetta ha ricordato l’esistenza online di videogiochi per raccogliere gli ebrei morti nei campi di concentamento, oppure i frequenti e offensivi fotomontaggi sull’Olocausto.