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Ecco come cambiano le abitudini di consumo

Italiani più sobri e accorti, ma anche più ottimisti: il primo rapporto dell’Osservatorio sui consumi delle famiglie fotografa un paese “all’anno zero”, che ha ormai elevato a nuova normalità le consuetudini imposte dalla crisi economica

Una crisi non passa senza lasciare segno. Una cosa subito evidente quando si guarda agli indicatori macroeconomici, capaci di sintetizzare in una sola percentuale l’andamento generale di un dato bene o comparto. Meno evidente se si considera invece un’area più opaca e sommersa, meno riducibile a semplici numeri, come le abitudini di consumo. Perché, sì, inflazione e indicatori di spesa fanno egregiamente il loro lavoro. Ma difficilmente riescono a scavare sotto la superficie di una semplice percentuale, andando a vedere cosa si nasconda dietro quella più o meno ampia variazione.
Una mano, in questa direzione, arriva dal primo rapporto dell’Osservatorio sui consumi delle famiglie, gruppo di lavoro istituito all’interno dell’Università di Verona in collaborazione con la società di indagini di mercato Swg. Pubblicato recentemente dall’editore Franco Angeli e curato da Domenico Secondulfo, Luigi Tronca e Lorenzo Migliorati, il rapporto illustra i risultati di un’indagine condotta nel corso del 2016. E, in un confronto aperto con i rilievi emersi da una survey del 2013, punta a fotografare i cambiamenti avvenuti in questi ultimi anni. Anni di progressiva (e forse non ancora definitiva) uscita da quella crisi, prima finanziaria e poi economica, che ha investito gran parte del mondo occidentale a partire dal 2008. E che difficilmente, come già accennato, riuscirà a passare senza lasciare qualche segno.

Un nuovo punto di partenza
Il primo elemento che balza all’occhio, più volte richiamato nel corso del volume, è che il 2016 si impone come una sorta di “anno zero”: come si legge nelle prime battute del rapporto, “l’impatto psicologico e sociale della crisi economica si è consolidato in una nuova normalità”. Il ricordo degli anni prima della crisi si è ormai attenuato. E la condizione attuale, per quanto lontana rispetto al benessere del recente passato, si è imposta come un dato acquisito, quasi un nuovo punto di partenza. Da cui gli italiani possono guardare il prossimo futuro con crescente ottimismo.

Sobrietà negli acquisti
Eppure, nonostante tutto, qualcosa è cambiato: di soldi da spendere ce n’è meno. E così non stupisce che alle tre categorie con cui è stata suddivisa la popolazione nell’indagine del 2013 (formiche, accorti e clienti) se ne sia aggiunta un’altra: quella dei poveri. Ne fa parte il 10% della popolazione, non distante da quell’8% indicato dall’Istat come quota di povertà assoluta: si tratta di persone che si sono ritrovate a ridurre qualità e quantità degli acquisti, a evitare prodotti costosi e di marca, a far ricorso a merce usata. Insomma, le prime vittime della crisi: stando ai risultati dell’indagine, il 19% del segmento ha dichiarato di aver ridotto le spese, aver chiesto aiuti economici, aver cambiato abitudini di acquisto e di non riuscire ad arrivare a fine mese.
Più in generale, la riduzione della disponibilità economica si è tradotta in abitudini di acquisto più sobrie e accorte. La sbornia consumistica negli anni degli status symbol ha ormai lasciato il passo a una morigeratezza che, per forza o necessità, sembra aver introiettato negli italiani il valore etico della sobrietà. Eccezion fatta per il parrucchiere, le spese per benessere e cura della persona sono le prime a essere tagliate. Perde terreno anche il segmento della tecnologia, forse anche a causa di un mercato che risulta ormai saturo. Pure le cure escluse dalle coperture del sistema sanitario nazionale, come le prestazioni dentistiche, risultano in calo.
Non tutto il male viene per nuocere. E così può anche capitare che, nella riorganizzazione generale delle abitudini di consumo, qualcuno trovi anche i margini per guadagnarci qualcosa. È il caso dei cosiddetti clienti, ossia quella che potrebbe essere definita la categoria più abbiente del panel, quella che basa le proprie scelte di consumo su aspetti immateriali come la relazione personale con il venditore. Secondo l’indagine, la quota di clienti è passata dal 16% del 2013 all’attuale 23%. Merito sicuramente della ripresa economica che si è registrata negli ultimi anni, come scrivono gli autori del rapporto. Ma anche della riorganizzazione dei punti vendita e, soprattutto, della razionalizzazione delle abitudini di consumo. Le rinunce degli anni passati avrebbero infatti consentito di ricostruire quella capacità economica che era mancata durante la crisi. E che permette ora, all’anno zero, di guardare al futuro con maggior ottimismo.