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La risposta ai nuovi virus

L’inaugurazione di un mega allevamento di suini in Cina genera timori per il possibile sviluppo di nuovi agenti patogeni: c’è la possibilità di ricadere nel triste scenario del coronavirus? Il rischio zero, per il microbiologo Claudio Bandi, non esiste: per questo è importante mettere in pratica la lezione del Covid-19

Lo scorso ottobre è stato inaugurato quello che è stato definito “il più grande allevamento di suini al mondo”. Due edifici gemelli e paralleli, 26 piani di cemento armato e acciaio, una superficie di oltre 800mila metri quadrati che, una volta che la struttura sarà pienamente operativa, permetterà di allevare fino a 1,2 milioni di maiali all’anno: un normale allevamento intensivo in Italia, giusto per avere un’idea, può contare al massimo qualche migliaio di esemplari. La notizia ha subito scatenato grandi polemiche. Innanzitutto per le condizioni in cui saranno costretti a vivere questi animali, concepiti, partoriti, cresciuti, nutriti e alla fine avviati alla macellazione fra le mura di quello che è un palazzo alto come la torre del Big Ben e che le associazioni animaliste hanno subito ribattezzato la pig farm, ossia la fabbrica dei maiali. E poi anche per i timori per la salute pubblica che un simile assembramento di animali, a tre anni dallo scoppio della pandemia di Covid-19, può generare nella popolazione. Timori alimentati anche dal fatto che l’allevamento si trova nella prefettura cinese di Ezhou, nella provincia dell’Hubei, praticamente a un’ora di macchina da quella Wuhan che, forse in un wet market, ha dato i natali al nuovo coronavirus. La domanda sorge spontanea: è possibile che questo mega allevamento possa un giorno rivelarsi uno straordinario bacino per lo sviluppo di nuovi virus? “Qualsiasi giudizio, almeno per il momento, non può che essere incompleto, perché non disponiamo di informazioni chiare e attendibili sui modelli di lavoro e sui protocolli di sicurezza”, avverte Claudio Bandi, professore ordinario di microbiologia al dipartimento di bioscienze dell’Università degli Studi di Milano. “Le informazioni disponibili – prosegue – suggeriscono che si tratterà di un allevamento a ciclo chiuso, che il flusso di animali sarà limitato al fisiologico ricambio delle scrofe e che il rischio di una contaminazione dall’esterno, e viceversa, sarà minimizzato con l’adozione di adeguate misure di sicurezza”.




La paura della peste

Un recente reportage del New York Times ha parlato di un sistema di monitoraggio con “telecamere ad alta definizione e tecnici in uniforme che lavorano in un centro di comando simile a quello della Nasa”. Ogni piano, prosegue l’articolo, “funziona come un ambiente autonomo per le diverse fasi di vita del maiale”. E i passaggi fra i vari livelli, per quanto riguarda sia gli animali sia gli addetti, dovrebbero essere ridotti al minimo.
La struttura, realizzata dalla Hubei Zhongxin Kaiwei Modern Animal Husbandry, è costata circa quattro miliardi di yuan, poco più di mezzo miliardo di euro. La Cina è, allo stesso tempo, il maggior produttore e il maggior consumatore di carne di maiale al mondo. La risorsa è così fondamentale per l’economia e la cultura del paese che il governo dispone di una riserva nazionale di carne di maiale. E nel 2019, all’indomani dell’ondata di peste suina che ha pesantemente colpito il settore, le autorità di Pechino hanno imposto a tutti i ministeri di sostenere il mercato. “Strutture di questo genere nascono proprio dal timore che fenomeni come la peste suina possano ripresentarsi”, osserva Bandi. “Considerati gli investimenti che sono stati fatti – aggiunge – viene naturale pensare che l’allevamento potrà essere dotato di tutte le misure di sicurezza possibili per evitare lo sviluppo di epidemie all’interno della struttura”. Del resto, un maiale pronto per la macellazione può avere un valore di circa 200 euro: considerando una popolazione di 1,2 milioni di esemplari, si fa presto a comprendere quali potrebbero essere le conseguenze economiche di un’epidemia.


Che fare in caso di una nuova pandemia? Mettere in pratica quello che il coronavirus ci ha insegnato


Nessun rischio zero

Il rischio zero, però, non esiste. “Per quanto la struttura possa essere all’avanguardia e presidiata, c’è sempre la possibilità che un virus riesca a entrare all’interno dell’allevamento”, osserva Bandi. E qui si troverebbe di fronte a quello che l’esperto definisce “un potenziale paradiso per agenti patogeni come virus e batteri: una popolazione di grandissime dimensioni, un contagio che potrebbe essere difficile da limitare, soprattutto per patogeni in grado di determinare infezioni subcliniche, poco evidenti: tutto questo potrebbe permettere al patogeno di rimanere nell’allevamento per settimane o mesi, un tempo sufficientemente lungo per consentire un’evoluzione del virus o del batterio che potrebbe favorire il salto di specie, il cosiddetto spillover, dal suino all’uomo”. Se poi un operatore infetto dovesse tornare a casa senza seguire le dovute misure di igiene e profilassi, ecco che i timori si trasformerebbero in realtà.
L’unica notizia positiva, per Bandi, è che “comunque veniamo dall’esperienza del coronavirus: la popolazione cinese ha vissuto in prima persona il Covid-19 e, su questa base, mi aspetto che le autorità abbiano acquisito consapevolezza sui rischi legati alle malattie infettive e diano quindi priorità all’adozione delle precauzioni utili a evitare che un’esperienza simile a quella del Covid-19 si ripeta di nuovo”. Inoltre, prosegue, “mi aspetto che abbiano competenze e risorse finanziarie tali da garantire la salute dell’allevamento e la sicurezza dell’intera struttura”. Competenze e risorse di cui invece non dispongono altri Stati, che magari proprio in questo momento si stanno avvicinando a forme di allevamento intensivo. “Onestamente – afferma Bandi – questo mi preoccupa di più”.




La lezione del Covid-19

Che fare dunque in caso di una nuova pandemia? Innanzitutto, per Bandi, mettere in pratica quello che il coronavirus ci ha insegnato. “Intervenire subito, evitare perdite di tempo e arrivare finalmente a una vera condivisione in tempo reale delle informazioni raccolte e generate dai laboratori di microbiologia e dai servizi di analisi epidemiologica di tutto il mondo”, osserva l’esperto. Poi, aggiunge, “adottare un sistema tipo hazard analysis and critical control points negli snodi più delicati per lo sviluppo e la diffusione di virus e di altri agenti patogeni, come appunto allevamenti intensivi e aeroporti, individuando fattori e processi critici facilmente controllabili per verificare l’eventuale presenza di agenti patogeni”.
Infine, ma non meno importante, evitare che l’essere umano si faccia del male da solo. “Spesso è l’uomo stesso a contribuire alla diffusione dei virus e di altri agenti infettivi, per esempio attraverso fenomeni come la frammentazione delle foreste che alterano gli ecosistemi e favoriscono il salto di specie” commenta Bandi. “Il cambiamento climatico – aggiunge – ha poi consentito a specie aliene di stabilizzarsi nei nostri territori, portando con sé agenti patogeni esotici e garantendo la possibilità di una loro trasmissione alle nostre latitudini, ad esempio per mezzo di zanzare di origine tropicale”. L’esperto conclude con una punta di ottimismo. “Non penso che nei prossimi decenni ricadremo nella situazione in cui ci siamo trovati con il coronavirus. Però, se mai dovesse accadere, consideriamo che in questi tre anni abbiamo acquisito competenze e consapevolezza, e abbiamo indirizzato risorse alla ricerca sulle malattie infettive: credo che oggi siamo tutti più preparati per evitare che quanto accaduto con il Covid-19 possa ripetersi nuovamente”.