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Il legame con i combustibili fossili

Che la terra sia un paziente malato è ormai dominio di tutti. Con diversi approcci al problema, la maggioranza dei governi sta concordando sulla necessità di agire con urgenza. Quando però si raccolgono i dati reali si scopre che la maggior parte dei paesi ancora cerca, utilizza e investe in fonti di energia non rinnovabili

L’obiettivo cardine contenuto negli accordi di Parigi è di limitare il riscaldamento globale sotto la soglia del grado e mezzo. Questa volontà ha riunito la maggioranza dei governi mondiali, soprattutto quelli delle economie mature, maggiormente responsabili della catastrofe climatica. Ma dalla teoria alla pratica la strada sembra essere molto lunga: dopo gli accordi, siglati nel 2015, i paesi del G20 non hanno mai diminuito i fondi per i combustibili fossili, anzi secondo l’analisi congiunta Ocse e International energy agency (Iea), il sostegno complessivo a petrolio e simili nelle 51 maggiori economie mondiali, che rappresentano circa l’85% della fornitura totale di energia del mondo, è passato da 362,4 miliardi nel 2020 a 697,2 miliardi di dollari nel 2021. In netta controtendenza con i buoni propositi sul clima, poi, nel 2022 i sussidi governativi ai combustibili fossili sono saliti a un trilione di dollari, il doppio rispetto al 2021 (fonte: Iea) e le maggiori banche mondiali, JP Morgan in testa, continuano a finanziare le compagnie petrolifere per 748 miliardi di dollari, senza nessuna flessione negli ultimi anni (Fossil Fuel Finance Report 2022). Un trend in continua crescita se si pensa che secondo le stime del Fondo monetario internazionale la spesa in fossili prevista per il 2025 arriverà a coprire il 7,4% del Pil globale, anch’essa in aumento rispetto agli anni passati.


Dopo gli accordi siglati nel 2015, i paesi del G20 non hanno diminuito i fondi ai combustibili fossili

 
Tra il dire e il fare

Un contrasto netto, quello tra le parole e i fatti, che fa molto riflettere dal momento che, secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), con questo ritmo non solo non potrà essere centrato l’obiettivo ambizioso di +1,5 gradi, ma verrà ampiamente sforato anche il tetto di due gradi, toccando quota 2,7 gradi entro la fine del secolo, con conseguenze sconosciute per il pianeta. Il problema poi si intensifica se a dover cantare nello stesso coro devono essere tutti i paesi del mondo, diversissimi per grado di sviluppo ed esigenze energetiche. Emblematico l’esempio dell’India, gigante demografico in piena espansione, il terzo maggiore emettitore di gas serra al mondo, che durante la Cop26 di Glasgow ha presentato un emendamento dell’ultimo minuto al suo ambizioso piano per raggiungere le emissioni zero entro il 2070: la parola eliminazione viene sostituita con diminuzione. Un particolare non irrilevante, che mostra come la rinuncia ai combustibili fossili, soprattutto per i paesi in via di sviluppo, sia ancora un’opzione non conveniente. Uno studio di McKinsey stima che per raggiungere la neutralità climatica la spesa annua globale dovrà aumentare di 3,5 trilioni di dollari. Chi dovrà farsene carico?



Chi paga la transizione?

Una trasformazione, quella verso NetZero, che porta con sé costi non meramente economici ma anche culturali e sociali. La transizione ecologica è una scelta politica, che richiede notevoli sforzi soprattutto ai paesi in via di sviluppo. Per un paese in crescita è ancora più difficile mutare il proprio modo di produrre, al netto di risorse finanziarie minori e una domanda crescente di energia. Non solo, i paesi poveri del mondo sono anche quelli maggiormente colpiti dalle conseguenze nefaste della crisi climatica: dal Pakistan flagellato da alluvioni che hanno portato danni per circa il 5% del Pil nazionale, al piccolo arcipelago di Tuvalu che è vicino a sprofondare sotto l’oceano a causa dell’innalzamento del livello del mare, fino al popoloso Sahel dove 135 milioni di persone stanno terminando le riserve d’acqua. I paesi in via di sviluppo, con la capostipite India, chiedono un rimborso ai paesi sviluppati di 340 miliardi all’anno come indennizzo per danni climatici e come sovvenzione per la transizione, dieci volte quanto elargito adesso. Una crepa tra paesi sviluppati e non che rende la questione ancora più intricata e scottante.


I paesi poveri del mondo sono quelli maggiormente colpiti dalle conseguenze della crisi climatica


Europa e Italia a tutto gas

Italia, Europa e tutto il mondo sviluppato si sono proposti nei contesti internazionali di essere i primi a dare l’esempio su come rendere possibile la transizione ecologica. Nei fatti, però, non è così. A gennaio, nel suo tour in Nord Africa la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha visitato l’Algeria e la Libia per rafforzare i rapporti energetici con i due paesi. Grazie alle intese sottoscritte da Eni e Sonatrach, i flussi algerini sono destinati a raddoppiare da nove a 18 miliardi di metri cubi annui al 2024, in sostituzione del gas russo da cui eravamo dipendenti al 40% prima dell’invasione dell’Ucraina. Quanto successo in Libia è simile, qui però il governo italiano, a braccetto col cane a sei zampe e la controparte libica (National oli corporation), ha previsto lo sviluppo di nuove strutture offshore che raggiungeranno nel 2026 un plateau di 750 milioni di piedi cubi di gas al giorno, il tutto con un investimento di otto miliardi di dollari. Poco più di un centinaio di chilometri più a est, nel Mediterraneo orientale, sono stati scoperti numerosi giacimenti di gas naturale, tra cui Zohr, il più grande di sempre nel Mare Nostrum. La US Geological Survey stima che nel Mar di Levante insistano riserve di gas per un totale di 286,2 trilioni di piedi cubici. Unione Europea e Italia guardano con interesse al progetto EastMed, un gasdotto sottomarino di circa 2000 chilometri in grado di collegare questi giacimenti con l’Europa, dal costo di sei miliardi. Da qui la nascita dell’East Mediterranean Gas Forum, annunciato per la prima volta nel 2018 e costituitosi nel 2019, una sorta di Opec del gas mediterraneo. Non certo una mossa per tracciare una strada verso un futuro fatto di energia rinnovabile.



GIGANTI DI CARBONE

Se il gas è visto come un male minore (rimanendo sempre un combustibile fossile) e questo, in parte, spiega l’esplosione del suo costo e la sua continua ricerca, non ci sono dubbi circa quale sia la fonte di energia più inquinante in assoluto: il carbone. Da solo è responsabile del 44% delle emissioni di CO2 nel mondo (fonte Iea). Forse può sembrare un combustibile appartenente a un’altra epoca, ma in Italia dopo lo shock energetico post Ucraina sono ritornate a pieno regime le cinque centrali ancora attive; la Germania ha riattivato miniere e centrali, nell’Unione Europea ben il 6% dell’energia prodotta deriva ancora dal carbone. Numeri minuscoli se paragonati ai due giganti asiatici. In particolare la Cina da sola consuma metà del carbone mondiale, mentre l’India è seconda con l’11,3%, ma con un trend in continua crescita che ricalca il suo sviluppo industriale potenzialmente ancora lunghissimo. I consumi energetici dello stato del dragone sono soddisfatti per il 57% dal carbone che contribuisce al 66% della produzione elettrica. In generale il consumo del più inquinante dei combustibili fossili, che secondo l’Iea ha eguagliato il suo massimo storico nel 2022, dovrà essere ridotto del 90% entro il 2050 per rispettare la tabella di marcia che permetterebbe di limitare l’aumento della temperatura globale intorno a 1,5 gradi. Un obiettivo ambizioso in netta controtendenza con quanto sta succedendo, considerando che, solo nel 2022, in Cina sono state inaugurate 14 nuove centrali a carbone.