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Patto per la decarbonizzazione: le industrie si alleano

Le associazioni dei settori Hard to Abate si uniscono per fare il punto sugli obiettivi imposti dal “Net Zero”. Ma la strada è sbarrata anche dalle incertezze sulle politiche energetiche a fronte del conflitto. A ciò si aggiunge l’aumento esponenziale dei costi. Le direttive Ue sembrano per di più stringenti

Decarbonizzare l’industria pesante per mantenere gli impegni presi sette anni or sono alla Cop21 e alla Conferenza di Glasgow sulla diminuzione della temperatura globale di 1,5°C entro fine secolo. Le principali associazioni industriali d’Italia danno vita al “patto” Idp (Industrial decarbonization pact). Nasce così un’alleanza che mira alla piena decarbonizzazione dei settori Hard to abate. L’elenco è lungo: Chimica, Cemento, Acciaio a ciclo integrato, Acciaio da forno elettrico, Carta, Ceramica, Vetro e Fonderie, sono tutti interessati. Pubblicato contestualmente allo scoppio del conflitto, ecco il primo studio promosso dagli aderenti a Idp in collaborazione con Boston Consulting Group. La ricerca offre strategie e leve per la “Carbon Neutrality” fissata nel 2050.

I pronostici della ricerca non offrono dati del tutto confortanti, soprattutto sotto l’aspetto economico. Le risposte si trovano però nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e nel Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec). Insieme, i due programmi consentirebbero una riduzione del 38% di emissioni nel 2030 rispetto al 1990. Ciò equivarrebbe, tuttavia, a 17 punti percentuali in meno di quanto richiesto dal Green Deal europeo (-55%).

Lo studio stima che i settori Hard to Abate in Italia inquinino per il 64% delle 85 milioni di tonnellate di CO2 prodotte nel complesso dall’industria del Paese. In termini economici il comparto apporta però 88 miliardi di euro di valore aggiunto, ovvero il 5% del totale nazionale. Quanto all’occupazione i settori Hard to Abate impiegano circa 700mila persone e sono centrali per la filiera italiana, poiché riforniscono tutti i comparti a valle. Di più: i settori oggetto dello studio soffrono economicamente lo svantaggio competitivo apportato dal costo dell’energia elettrica, cresciuto a fine 2021 del 650% rispetto al periodo di fine 2020. Non va meglio il gas naturale, il cui prezzo fra novembre 2020 e novembre 2021 è aumentato del 671 per cento. Le industrie poi si vedono sbarrata la strada della decarbonizzazione anche a causa di un minor accesso ai vettori energetici “green”.

Il sistema EU Ets per lo scambio delle quote CO2

L’Ue peraltro nel 2005 ha introdotto l’EU Ets, un sistema di scambio di quote di emissioni gas ad effetto serra. Le industrie in sostanza ricevono ogni anno una quota monte di emissioni (cosiddetto Cap), che va compensato restituendo le quote di emissioni prodotte l’anno precedente. Le quote si possono anche rivendere, ma se i numeri delle immissioni non tornano a pareggiare il bilancio di sostenibilità ambientale, le industrie allora si vedono obbligate all’acquisto di quote altrove, aumentando la spesa. Il meccanismo EU Ets sembra destinato a irrigidirsi, con la riduzione progressiva delle quote gratuite elargite dal sistema alle industrie.

A proposito, le emissioni dei settori Hard to Abate del Paese aumenteranno in previsione fino a 62 milioni di tonnellate nel 2030, e si teme che il 40% di tali emissioni non saranno più coperte dalle quote EU Ets gratuite.

La stima dei prezzi della CO2 è destinata ad aumentare dai 65 euro per tonnellata del 2021, ai 90-130 euro nel 2030. L’effetto di tale aumento - si legge nello studio - “porterebbe ad un’erosione del margine operativo lordo (Mol) dei settori di circa 2,1-2,7 miliardi di euro all’anno”, ovvero il 20-25% del totale. Le associazioni dell’industria avvertono, inoltre che, qualora non si trovino soluzioni, in pericolo ci sarebbero 300mila posti di lavoro. È una questione di sopravvivenza, poiché nel peggiore dei casi aumenterebbe il rischio di chiusura o delocalizzazione degli impianti.

Come va l’Italia sul benchmark europeo delle immissioni

Gli sforzi per ridurre le emissioni nei settori Hard to Abate, tuttavia, si mostrano effettivi. Le industrie esaminate si piazzerebbero bene (o anche meglio) rispetto al benchmark europeo. Stando ai dati forniti dalle associazioni di categoria, nel settore chimico il 38% dei rifiuti sono avviati a ripristino ambientale e il 27% vengono avviati al riciclo, mentre solo il 5% va in discarica. Nel settore dell’acciaio l’85% della produzione avviene da riciclo del rottame ferroso, di contro la media dell’Unione Europea si attesta al 43%. Nella carta più del 60% della materia prima proviene da fibre secondarie, mentre il valore di riciclo nell’imballaggio arriva all’87%, superando già di 2 punti percentuali l’obiettivo imposto dall’Ue per il 2030. Anche il vetro è abbastanza “green”, con un tasso di riciclo da imballaggi del 79%.

Le soluzioni per la decarbonizzazione

Le leve tradizionali per favorire la decarbonizzazione vengono rappresentate in primo luogo dall’efficienza energetica, che - stando allo studio - va rivista nei processi produttivi, in primis abbassando la quantità di energia termica ed elettrica necessaria. Va migliorata poi l’economia circolare: riutilizzando gli scarti di produzione e utilizzando materiali riciclati.

Altro tema è quello dei combustibili tradizionali. Questi devono vedersi sostituiti dalle materie prime a bassa impronta carbonica, come il charcoal, oppure il preridotto (alternativa al carbon coke) utilizzato nella siderurgia, senza dimenticare l’idrogeno e il Css, un combustibile solido secondario ottenuto dai rifiuti non pericolosi.