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Welfare: bene la previdenza, male l’assistenza

Tiene il sistema previdenziale, ma non quello assistenziale. A confermarlo è il settimo rapporto sul bilancio del sistema previdenziale italiano. Da cui emerge, ai fini della sostenibilità, l'urgenza di una revisione strutturale coraggiosa, con la necessità di contrastare l’evasione e di istituire un'anagrafe centralizzata

Benché in leggera crescita, la spesa pensionistica è sotto controllo: nel 2018, ha raggiunto i 225 miliardi di euro, a fronte di un insostenibile costo delle attività assistenziali: 105 miliardi, in crescita annua, dal 2008, del 4,3%.
A evidenziarlo è il settimo rapporto sul bilancio del sistema previdenziale italiano - presentato nei giorni scorsi a Roma, dal centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali - da cui emerge un rapporto attivi/pensionati, pari a 1,45, molto vicino al valore (1,5) che potrebbe garantire la sostenibilità di medio e lungo termine del sistema.
Dal rapporto, infatti, si evidenzia un aumento del numero degli occupati (23 milioni) e una decrescita di quello dei pensionati (16 milioni, il più basso degli ultimi 22 anni), ma anche un’incidenza della spesa previdenziale sul Pil pari al 12,86% (l’11,72% al netto dell’assistenza), con un aumento medio annuo, dal 2010, inferiore all’1,3%, in linea con il tasso di inflazione.
Se la spesa pensionistica non preoccupa, è ancora una volta quella per l’assistenza a confermarsi il punto debole del sistema di protezione sociale: una voce che vale il 67,96% del costo delle pensioni e che incide sul Pil per il 4,56%; inoltre, nel 2018, le sole prestazioni assistenziali hanno avuto un costo complessivo di oltre 22 miliardi e i beneficiari sono stati il 49,3% dei pensionati totali. Un dato che, secondo Alberto Brambilla, presidente del centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali “fa oggettivamente riflettere” tanto più che queste prestazioni gravano per 33,4 miliardi sulla fiscalità generale e non sono neppure soggette a imposizione fiscale.
Il nocciolo del problema è che mentre le prestazioni previdenziali sono state ridotte mediante riforme stringenti, quelle assistenziali continuano ad aumentare sia per le promesse politiche che per l’inefficienza della macchina organizzativa, priva di un’anagrafe centralizzata e di un adeguato sistema di controlli fiscali e contributivi, che rappresentano oggi le misure da attuare con urgenza per la tenuta del sistema.

Il peso del welfare nel bilancio statale
Sono tre i rapporti che danno l’idea dell’incidenza del welfare sulla vita economica del Paese: quello sul Pil, che si attesta al 29,6%, quello sul totale delle entrate contributive e fiscali, arrivato al 56,62% e quello sulla spesa totale, che si attesta al 54,14%: dati che è bene evidenziare sia per l’insostenibilità del sistema che per sfatare alcuni luoghi comuni, il primo dei quali è che l’Italia spende poco per la socialità. Secondo i dati, infatti, per finanziare il generoso sistema di welfare italiano sono occorsi 462 miliardi, ovvero tutti i contributi sociali e di scopo, tutta l’Irpef, l’Ires, l’Irap e quasi tutta l’Isos e ora, per sostenere il resto della spesa pubblica, non resta che attingere alle residue imposte indirette o fare nuovo debito.

I veri importi delle pensioni
In media, ogni pensionato percepisce 1,424 pensioni (il 67,2% dei pensionati percepisce 1 prestazione, il 24,8% ne percepisce 2, il 6,7% ne riceve 3). Qui va sfatato un altro importante mito che riguarda le pensioni sotto i mille euro: se è vero infatti che queste sono il 65,4% delle prestazioni erogate, lo è altrettanto che i pensionati che le ricevono sono il 40,8% del totale, quindi sostenere che oltre la metà delle erogazioni sia inferiore a mille euro al mese, non è corretto; in particolare, se si calcola l’importo medio della pensione sul numero totale delle prestazioni, si ottengono 990 euro lordi al mese, in 13 mensilità, ma facendo riferimento al totale dei pensionati, il reddito pensionistico medio pro-capite risulta pari a 1.162 euro mensili netti.

Il divario di genere
Passando all’altro luogo comune ovvero il cosiddetto gender gap pensionistico, il rapporto evidenzia che, nel 2018, le donne rappresentano il 52,2% dei pensionati, ma percepiscono il 44,1% dell’importo lordo pagato per le pensioni e che, sul totale delle prestazioni erogate, il reddito pensionistico annuo delle donne è pari a 11.550 euro, mentre quello degli uomini arriva a 19.307 euro. Un divario che, considerando anche le prestazioni assistenziali e indennitarie, si riduce a 5.976 euro annui.
Due le motivazioni alla base del gap: le donne registrano un maggior numero di pensioni pro-capite (in media 1,51 prestazioni a testa, a fronte dell’1,33 degli uomini) e prevalgono tra i percettori di pensioni ai superstiti (86,5% del totale) e nelle prestazioni prodotte da contribuzione volontaria, che sono di modesto importo a causa di livelli contributivi molto bassi.
In ogni caso, è fondamentale migliorare la condizione lavorativa femminile: sia a livello di tasso di occupazione (quelle delle donne è del 49,5% contro il 67,6% degli uomini) soprattutto al Sud (32,8% contro 56,4%) sia per quanto riguarda i livelli di carriera, le retribuzioni a parità di mansioni e le carriere più discontinue.

Le priorità su cui lavorare
In ultimo, il rapporto evidenzia le principali ombre del sistema di welfare e i principali passi da compiere. Le modifiche introdotte dal decreto legge 4/2019, tra cui anche il pensionamento anticipato con Quota 100, porteranno infatti a un incremento delle pensioni in pagamento e quindi all’interruzione di un trend di miglioramento del rapporto attivi/pensionati.
Il sistema, dunque, necessita di una “revisione strutturale e più coraggiosa”, per risolvere in particolare tre criticità: la totale equiparazione delle regole e delle tutele (integrazione al minimo) per i giovani contributivi che hanno iniziato a lavorare dall’1/1/1996 e l’istituzione di un fondo pensione per i contributivi, alimentato da subito con 500 milioni l’anno proprio per finanziare le tutele che oggi i cosiddetti contributivi puri non hanno a disposizione, a partire dal 2036; il blocco dell’adeguamento alla speranza di vita del requisito di anzianità contributiva richiesto per la pensione anticipata, con sconti per precoci e lavoratrici madri; l’utilizzo dei fondi esubero per lavoratori con problemi e la reintroduzione della flessibilità già prevista dalla riforma Dini/Treu, consentendo il pensionamento con 64 anni di età e 37/38 di contributi. “Un buon compromesso, secondo Brambilla, tra l’esigenza di flessibilizzare il nostro sistema pensionistico e di garantirne al contempo la sostenibilità di lungo termine.