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Il flop della Cop25 di Madrid

Molti auspici e poca ambizione: si è chiusa con un esito deludente la conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul clima

Un’occasione persa, per dirla con le parole del segretario generale dell’Onu, Antonio Gutierres. La Cop25, conferenza mondiale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, è stata un flop. Non sono bastati i due giorni extra aggiunti ai lavori: evitato il fallimento totale, l’accordo si è chiuso portando a casa solo un magro successo per i Paesi vulnerabili (quelli che rischiano di sparire come le piccole isole del Pacifico) rispetto a quelli ricchi sul punto dell’Ambizione: cioè entro l’anno prossimo questi ultimi dovranno indicare (sarà un obbligo, non un’opzione) di quanto aumenteranno gli impegni per tagliare i gas serra. Il 2020 sarà quindi fondamentale per salvare l’accordo di Parigi.
Risultati decisamente modesti, rispetto ai quali, come accennato, il segretario generale dell’Onu non ha nascosto la propria delusione affidando le sue parole a Twitter: “La comunità internazionale – ha scritto – ha perso una opportunità importante per mostrare maggiore ambizione nell’affrontare la crisi dei cambiamenti climatici. Non dobbiamo arrenderci, e io non mi arrenderò”.

Tutto rinviato a Glasgow
La maggior parte dei nodi da sciogliere alla conferenza è stato rinviato al 2020, come ad esempio la definizione delle regole sul mercato globale del carbonio. Ma i temi sul tavolo al vertice di Madrid erano molti. In primis, l’aumento degli impegni nazionali sottoscritti nel 2015 a Parigi per un taglio di gas serra in linea con l’innalzamento medio della temperatura globale di 1,5 gradi centigradi entro il 2100: 73 Paesi avevano già definito, prima della Cop di Madrid, l’aumento degli impegni o l'intenzione di rafforzarli, altri 11 hanno avviato il processo. Un secondo dossier riguardava l’articolo 6 dell’accordo di Parigi sulla regolazione del mercato globale del carbonio. Un terzo importante dossier riguarda gli aiuti per i loss and damage, ovvero per le perdite e i danni subiti dai Paesi vulnerabili (peraltro i meno responsabili dei gas serra); quest’ultimo punto, contenuto nel cosiddetto Meccanismo internazionale di Varsavia, prevedeva che ci fosse la revisione del sistema di aiuti. I Paesi vulnerabili chiedevano 50 miliardi di dollari all’anno entro il 2022, da aggiungere ai 100 miliardi all'anno al 2020 ed estesi almeno al 2025, per una ricostruzione e una ripresa economica: ma ogni decisione è stata rinviata al 2020.
Quanto all’ambizione di tagliare le emissioni di gas serra, i Paesi vulnerabili hanno preteso fosse scritta nero su bianco nella decisione finale della Cop la parola “enhanced”, ovvero “aumentati” in relazione agli impegni di alzare gli obiettivi di taglio di CO2 al 2030, che vanno presentati alla Cop26 a Glasgow nel novembre 2020. Ma hanno chiesto anche che questi impegni fossero formalizzati entro ottobre 2020, al segretariato dell’Unfccc (la convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), in modo da preparare un rapporto per la Cop26 per capire se ci sia un gap fra gli impegni trasmessi e quelli necessari per l’obiettivo +1,5 gradi.

Su questo punto, il neonato Green new deal della Commissione Ue aveva già previsto che la proposta di aumento dei target di riduzione delle emissioni al 2030 potesse essere presentata non prima dell'estate 2020. Che sarebbe troppo tardi, fanno osservare gli addetti ai lavori, perché non ci sarebbe il tempo per consentire ai governi europei di raggiungere un accordo ambizioso entro l'ultima data utile di giugno 2020. È il Consiglio Europeo che deve adottare un'ambiziosa strategia climatica di lungo termine. All’interno di questa questione c'è quella della durata di attuazione degli impegni: alcuni avrebbero voluto cinque, altri dieci anni.

Relativamente all’articolo 6 sono invece rimaste significative divisioni sul meccanismo di calcolo dei crediti di carbonio, con il Brasile che vorrebbe un “doppio conteggio” sia a carico di chi vende sia di chi compra. Un ulteriore braccio di ferro ha riguardato anche l’integrità ambientale dei progetti per cui i crediti prodotti devono rispettare i criteri rigorosi di protezione ambientale e sostenibile.

Il ministro Costa: meglio nessun accordo che un brutto accordo
Secondo il ministro italiano dell’Ambiente, Sergio Costa, è meglio non avere un accordo “piuttosto che un accordo al ribasso, ma che poi è vincolante e compromette tutto il resto”. Parlando con l’agenzia Ansa, il ministro ha sottolineato che l’Italia “con l'educazione ambientale, il dl Cima e il Green new deal, provvedimenti fatti in tempi non sospetti, si è presentata alla Cop25 già forte e non si è tirata indietro sulla richiesta di un’ambizione significativa e spingerà verso l’ambizione anche nel 2020 per costruire un percorso che arrivi a un accordo alla Cop26 di Glasgow”. Costa, che ha partecipato ai lavori di Madrid, guarda all’anno prossimo, quando l’Italia sarà partner della Gran Bretagna nell’organizzare la pre-Cop a Milano in ottobre all’interno della quale ci sarà un evento dedicato ai giovani. “Abbiamo dato massimo ascolto ai Paesi vulnerabili – spiega Costa – con molti dei quali, dalle piccole isole ai Paesi africani, abbiamo degli accordi di programma, e abbiamo ragionato su quante risorse fossero necessarie per aiutarli. Con l'Unione europea abbiamo avuto un'unica voce, compatta, e si è proposta una commissione tecnica per trovare un percorso utile. Abbiamo messo tutti gli argomenti sul tavolo ma qualche Paese ha detto di no”. Il riferimento è ad esempio al “Brasile che ha posto la condizione dei crediti di carbonio” per cui chiede un doppio conteggio. Condizione respinta, che non ha consentito di raggiungere un compromesso e che ha portato allo scontro fra blocchi contrapposti. E quindi alla mancanza di accordo. “L’Italia – ha detto Costa – si è spesa fino in fondo, ha avuto un ruolo gravitazionale in ambito europeo, di grande mediazione, riconosciuto anche da Cina ai Paesi arabi” ha spiegato il ministro che ha avuto una serie di incontri bilaterali e rivelando che sino all'alba, sino all'ultimo momento possibile si è cercato l'accordo. "Non si trattava solo di un aspetto amministrativo-politico ma di uno etico, morale - ha spiegato il ministro – perchè la storia ci sta giudicando, certi territori corrono il rischio di non esserci più fra alcuni anni per l'egoismo nazionalista di altri”.

Wwf: hanno vinto i Paesi inquinanti
Molto duro il commento del Wwf, che in comunicato lamenta come la Cop25 si sia conclusa con “i Paesi più inquinanti - Stati Uniti, Cina, India, Giappone, Brasile, Arabia Saudita e altri - che si sono sottratti alla loro responsabilità di ridurre le emissioni di gas serra, bloccando progressi significativi. Nonostante le accese richieste di azione immediata per il clima da parte dei Paesi vulnerabili, della società civile e di milioni di giovani di tutto il mondo, rileva l’associazione, “i grandi responsabili delle emissioni di CO2 hanno ostacolato gli sforzi per accelerare la marcia e mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C. Sebbene questa conferenza fosse stata definita come la Cop dell’ambizione, a Madrid è stata evidente la mancanza della volontà politica necessaria a rispondere alle indicazioni della comunità scientifica”. E ancora: "I governi regressivi continuano ad anteporre i propri interessi alla crisi planetaria. A eccezione dell'Unione Europea, i colloqui hanno mostrato una totale mancanza di volontà di accelerare le azioni da parte dei maggiori emettitori di anidride carbonica e altri gas serra. Sono state rinviate le decisioni sul mercato del carbonio a causa del costante tentativo di alcuni Paesi di inquinarlo con l'aria fritta proveniente dai crediti sui progetti, molti del quali discutibili o non addizionali, attuati nel protocollo di Kyoto”. Secondo Manuel Pulgar-Vidal, leader globale del Wwf su clima ed energia, “nonostante gli sforzi della Presidenza cilena, la mancanza di impegno per accelerare e incrementare l’azione climatica da parte dei grandi Paesi produttori di emissioni era troppo forte. La loro posizione è in netto contrasto con la scienza, con le crescenti richieste provenienti dalle piazze e i duri impatti già avvertiti in tutto il mondo, in particolare nei paesi vulnerabili”.

Greenpeace: no al mercimonio della negoziazione
La conferenza, che inizialmente doveva tenersi in Cile e che, in seguito alle proteste in corso nel Paese latinoamericano, è stata spostata a Madrid, non è stata esente da dure critiche riguardanti il ruolo stesso di questo tipo di meeting. È il caso di Greenpeace, i cui attivisti venerdì 13 dicembre hanno organizzato un’azione di protesta nei dintorni del complesso fieristico dell’Ifema, dove si svolgevano i lavori del vertice, per protestare contro la "mercificazione delle negoziazioni climatiche". L’organizzazione ha appeso diversi striscioni di 20 metri quadrati e una trentina di attivisti espongono i messaggi “Il clima non è un affare” e “Le politiche climatiche sono inquinate”. L'organizzazione ambientalista, in un duro comunicato stampa diffuso dopo la chiusura del vertice, sostiene che i potenziali progressi siano stati “ancora una volta compromessi dagli interessi delle compagnie dei combustibili fossili e di quelle imprese che vedono in un accordo multilaterale contro l’emergenza climatica una minaccia per i loro margini di profitto. Durante questo meeting – sottolinea Greenpeace – la porta è stata letteralmente chiusa a valori e fatti, mentre la società civile e gli scienziati che chiedevano la lotta all’emergenza climatica venivano addirittura temporaneamente esclusi dalla Cop25. Invece, i politici si sono scontrati sull’articolo 6 relativo allo schema del commercio delle quote di carbonio, una minaccia per i diritti dei popoli indigeni nonché un'etichetta di prezzo sulla natura. A eccezione dei rappresentanti dei Paesi più vulnerabili, i leader politici non hanno mostrato alcun impegno a ridurre le emissioni, chiaramente non comprendendo la minaccia esistenziale della crisi climatica". Jennifer Morgan, direttrice esecutiva di Greenpeace International punta il dito contro “l’irresponsabile debolezza della presidenza cilena” e contro “Paesi come Brasile e Arabia Saudita hanno invece fatto muro, vendendo accordi sul carbonio e travolgendo scienziati e società civile”.

La generazione Greta
Hanno protestato anche i giovani attivisti dei Fridays for Future che venerdì scorso hanno protestato contro i risultati giudicati insufficienti raggiunti dalla Cop25 di Madrid (la giovane attivista svedese Greta Thunberg, nominata persona dell’anno dal settimanale Time, era presente a Torino). “Questa Cop ci ha deluso”, denunciano, criticando i politici che “invece di affrontare il problema e lavorare su soluzioni reali” contro i cambiamenti climatici, “si allontanano sempre più dagli impegni dell’accordo di Parigi”. Non solo: i Fridays for Future ritengono anche che i leader “stiano zittendo la voce della società civile”: i giovani attivisti avevano già mostrato il loro disaccordo con la Cop25 durante la scorsa settimana, quando, mercoledì 11 dicembre, più di 300 di loro si erano mobilitati per i diritti delle popolazioni indigene, i diritti delle donne e per chiedere misure ambiziose ai Paesi ricchi.