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Politica e social network, comunicazione senza risposte?

Seguendo le inclinazioni e le abitudini della popolazione, ormai condizionate dalla pervasività dei social network, gli esponenti politici hanno cambiato da tempo il modo di comunicare le proprie posizioni, le opinioni, le decisioni del partito che rappresentano.
L’apparente motivazione di questo cambiamento è ridurre la distanza tra politica e cittadini per creare immediatezza nella relazione e maggiore interazione con l’utente, che può così condividere commenti e riflessioni. Il mondo social è stato dunque presentato come lo strumento democratico per eccellenza, grazie al quale diventa finalmente possibile dare voce a chi altrimenti non potrebbe esprimersi.
Ma, come spesso accade, la strada dei buoni propositi è lastricata di ostacoli e insidie.
Per il politico, i commenti che viaggiano attraverso l’enorme cassa di risonanza dei social network (e in particolare le reazioni che trasmettono aggressività e a volte anche ignoranza), dovrebbero essere fonte preziosa per interpretare idee, sentimenti e bisogni.
Il buon senso consiglierebbe dunque alla politica di ascoltare il contenuto di questo rumore per dare risposte, evitando di ignorare il messaggio che arriva anche dal più gretto degli interlocutori.
La dialettica costruttiva, del resto, è sinonimo non solo di capacità di confronto ma anche di volontà di condividere il problema e trovare una soluzione.
La questione però appare un po’ più complessa, visto che la caratteristica di immediatezza rischia di rivelarsi solo illusoria: la comunicazione politica sui social è in realtà frutto di una strategia che prende corpo in post, tweet, video pubblicati con il sapiente contributo di mediatori, collaboratori o professionisti della comunicazione.
L’obiettivo è, sotto la maschera dello strumento democratico e della vicinanza al cittadino, esattamente quello a cui miravano i più tradizionali mezzi di propaganda: il volantino, la brochure, il libro inviato a casa o, più semplicemente, la radio e la televisione intesi come forza per raggiungere, stimolare e persuadere la massa.
La differenza rispetto al passato è, pertanto, che attraverso i social la politica in primis può cogliere il valore della condivisione per dare risposte a chi le chiede. Il risultato, altrimenti, è solo quello di contribuire a diffondere rumore in un vuoto, fatto di populismo o meno, che prima o poi potrebbe presentare, a chi ci governa e quindi al Paese, un conto molto salato.
Il caso del crollo del ponte Morandi è emblematico: alla legittima richiesta di giustizia, ma anche ai toni aggressivi (e all’ignoranza), il Governo reagisce con azioni basate sulla tecnica dell’accusa, del complotto, che portano a un’unica “soluzione”: il verdetto sommario e la punizione, che aggiungono, tra un tweet e l’altro, solo aggressività all’aggressività. Così procedendo, si ignora che lo stato di diritto impone la ricerca di giustizia e del giusto risarcimento, il rispetto dei contratti e l’obbligo di lasciare il verdetto finale alle sedi opportune. Chi è colpevole dovrà pagare sia sotto il profilo penale che civile.
Che fisionomia potrà allora assumere un Governo che, utilizzando la cassa di risonanza dei social network, diffonde giudizi e dimentica lo stato di diritto? Nelle parole che viaggiano tra post e tweet risulta difficile individuare le risposte al bisogno di sicurezza dei cittadini e all’obbligo di tutela del Paese, garanzie necessarie anche in relazione alla difesa dell’economia locale e nazionale. Un silenzio, quindi, che finisce per nascondersi nel frastuono dei proclami di facebook, ma che potrebbe pesantemente contribuire, a conti fatti, a minare la credibilità di chi tanto oggi punta il dito.