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Per far salire il Pil bisogna dare soldi ai bambini

Il problema della denatalità in Italia getta un’ombra sulla tenuta sociale ed economica del nostro Paese nei prossimi anni. Per invertire la tendenza servono politiche di investimento sui servizi rivolti all’infanzia da zero a cinque anni

L’Italia non è un Paese per giovani. Soprattutto perché di giovani italiani ne nascono sempre meno. La precarietà economica e lo scarso (spesso inesistente) sostegno pubblico per chi ha dei bambini da zero a cinque anni in molti casi scoraggiano gli aspiranti genitori a diventare tali. La politica, più incline a occuparsi di chi una pensione ce l’ha già piuttosto che di coloro che (tra 30 o 40 anni) potrebbero non averne alcuna, non sembra volersi sintonizzare sulle nubi che minacciano il nostro Paese. “Per anni nel nostro Paese è mancata una visione prospettica”, ha spiegato il professor Alessandro Rosina, ordinario di Demografia presso l’Università Cattolica di Milano. Rosina ha all’attivo diverse pubblicazioni sull’argomento, tra cui citiamo il bel saggio Non è un Paese per giovani, scritto con Elisabetta Ambrosi e pubblicato nel 2009 per i tipi di Marsilio. Il docente è intervenuto il 9 maggio scorso a Milano durante la presentazione del 5° rapporto del gruppo Assimoco sul neo-welfare per le famiglie italiane, che ha fotografato una situazione che per il nostro Paese è una gigantesca Spada di Damocle. “La denatalità – ha detto Rosina – è un problema grave, delle cui conseguenze ci accorgeremo tra alcune decine di anni. In Italia non si è voluto guardare al futuro. E si è disinvestito sulle nuove generazioni”. Il risultato si riflette nei numeri della bassa natalità. Nel 2017 (dati Eurostat) in Italia l’incidenza della popolazione tra i zero e i cinque anni di età era pari all’8%. La divaricazione tra il tasso di natalità italiano nel 2016, che è del 7,8% è significativa se si osserva la media Ue (9,6%), con Paesi come Francia, Svezia e Regno Unito in cui tale dato è all’11%.

Sempre meno, sempre più tardi

Le difficoltà, ha spiegato Rosina, si osservano non solo nel numero di figli per coppia, ma anche sull’età in cui si hanno. “In Italia l’età media del primo figlio è passata dai 25 anni (negli anni ’70) ai 31 anni attuali. Un’età che corrisponde a quella in Francia si ha il secondo figlio”. Eppure l’età in cui si desiderano i figli è di 28 anni tanto in Francia quanto in Italia, ma nel nostro Paese “il numero dei figli realizzato è inferiore anche alle aspettative di quanti figli si vorrebbero idealmente”. A scoraggiare i giovani, spesso, è anche la difficoltà di accesso ai servizi. Si prenda ad esempio il caso degli asili nido. I genitori intervistati per la ricerca ritengono che l’asilo nido sia fondamentale tanto per la socializzazione del bimbo, quanto per l’empowerment degli stessi genitori, i quali possono avere la possibilità di proseguire la propria carriera lavorativa. L’accesso all’asilo nido dovrebbe essere una possibilità alla portata di tutti. Ma così non è. Il report di Assimoco mostra una divaricazione tra accesso agli asili nido e quello alle scuole materne: solo il 12,6% dei bambini tra zero e tre anni usufruisce dei servizi pubblici per la prima infanzia (anche perché solo il 55,7% dei Comuni italiani predispone tali strutture). Per questo motivo i giovani devono necessariamente fare affidamento a nonni e parenti vari. Eloquente il dato che indica nel 70,1% la percentuale di coppie con figli piccoli che si appoggia ai nonni per la gestione della vita quotidiana dei figli. Il 36,5% delle famiglie riceve aiuti in denaro da genitori e suoceri, per un ammontare complessivo di 11 miliardi di euro. Anche perché il costo diretto per mantenere un figlio fino ai 18 anni in Italia ammonta a 180mila euro.

Il confronto con il resto d’Europa

Rosina, che per lo studio di Assimoco ha analizzato i livelli di fecondità media degli Stati europei, e in particolare nelle metropoli, ha osservato che Parigi e Berlino presentano un numero medio di figli più basso rispetto alla Francia e alla Germania, mentre Madrid e Milano si mantengono al di sopra della propria media nazionale. Tra le grandi città considerate, Roma risulta quella con dinamiche recenti più negative, con un percorso opposto a quello positivo di Berlino, dove il tasso di fecondità è aumentato nel corso degli ultimi anni. A incidere, oltre alle politiche nazionali, le iniziative messe in atto dai singoli comuni per migliorare la conciliazione fra tempi di lavoro e tempi per la famiglia, “ancor più importante nelle grandi città, dove la percentuale di donne che lavorano tende a essere maggiore che altrove”, ha affermato Rosina.
Il divario sul piano delle risorse investite per la spesa educativa pubblica dedicata all’infanzia (da zero a cinque anni di età) vede l’Italia collocarsi nella fascia più bassa, con lo 0,5% del Pil allocato rispetto a una media Ue dello 0,8% e a Paesi come Svezia (1,9%), Germania e Finlandia (0,9%), Francia e Spagna (0,8%) che hanno capito meglio di noi una lezione che Alessandro Rosina sintetizza così: “ogni euro investito sui giovani ha un ritorno ancor più significativo quanto prima lo si investe”.