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Clima, il surriscaldamento prosciuga le risorse

Il lavoro del ricercatore italiano Pietro Sternai, e dell’equipe in cui lavora, aiuta a capire meglio come le nostre società siano messe a rischio dall’aumento delle temperature: dalla scarsità idrica all’attività vulcanica

Sapere se il Mar Mediterraneo, cinque o sei milioni di anni fa, si è quasi prosciugato può dirci qualcosa sul nostro presente, sulla vita che viviamo e quella che vivranno le generazioni future? Per quanto nella nostra prospettiva ristretta, nell’epoca fatta di memorie passeggere ed eterni presente, le cose che non ricadono all’interno dei nostri tre minuti d’attenzione del momento ci sembrino sfuggenti, i cambiamenti del pianeta sul lungo (lunghissimo) periodo possono aiutarci a comprendere le tante dinamiche che influenzano l’ordinamento delle nostre società. La dimostrazione è un recente lavoro di Pietro Sternai e del gruppo di ricerca dell’Università di Ginevra, pubblicato su Nature Geoscience, una delle principali e più autorevoli riviste scientifiche al mondo. Sternai, ricercatore italiano che da oltre 10 anni lavora tra Svizzera, Stati Uniti, Inghilterra e Francia, ha curato una ricerca che propone la tesi secondo cui la maggiore attività vulcanica è una prova indipendente che il Mar Mediterraneo tra i cinque e i sei milioni di anni fa si sia quasi prosciugato. Questa tesi, come vedremo, ha un legame diretto e indiretto con l’evoluzione del clima e la disponibilità delle risorse naturali, anche se la questione è presa da un punto di vista geologico.


La crisi di salinità 

“Cinque milioni di anni fa – spiega Sternai, al telefono con Società e rischio – sappiamo che il Mediterraneo si è isolato dall’Atlantico perché lo Stretto di Gibilterra si è chiuso, trasformando il Mediterraneo in un grande lago molto salato, un po’ com’è oggi il Mar Morto. Questo è assodato ormai dagli anni ’70, perché sono stati trovati evaporiti (sedimenti minerali, ndr) il cui volume non può essere spiegato se non con la chiusura dello stretto di Gibilterra”. Le conseguenze di questo fenomeno sono molto difficili da individuare e ancor più da interpretare. Negli anni, la comunità scientifica si è divisa in due scuole di pensiero: una che sostiene che la chiusura dello stretto non abbia comportato il prosciugamento del Mediterraneo mentre l’altra propone il contrario, o comunque un abbassamento fino a 2000 metri di profondità. Per capirci, la seconda ipotesi, che è anche quella che sostiene il gruppo di lavoro di Sternai, prevede un ritiro delle acque tale da permettere una lunga passeggiata ininterrotta sulla terra ferma dalle Alpi fino alla Tunisia. L’evento che ipotizzano i ricercatori della seconda scuola è noto come crisi di salinità: la ricerca di Ginevra ha trovato una prova indipendente a sostegno.


Lo scioglimento dei ghiacci risveglia i vulcani 

“Noi sappiamo – continua il ricercatore – che nei periodi interglaciali, cioè tra le glaciazioni, l’attività vulcanica cambia. Succede perché quando è presente una calotta glaciale sulla crosta terreste, il peso di questa aumenta la pressione e il magma sotto la crosta è prodotto in minor quantità e soprattutto e meno mobile. Quando invece le calotte si sciolgono, la pressione è minore e quindi i vulcani sono più produttivi e più attivi: è un dibattito recente ma ci sono sempre più evidenze in questo senso. Abbiamo scoperto – dice Sternai – che durante la crisi di salinità la produzione dei minerali vulcanici è stata molto maggiore che in altre epoche: cioè i vulcani hanno eruttato di più, prova che il Mediterraneo si è abbassato molto, se non prosciugato”. Detta in parole molto povere: a un aumento delle temperature corrisponde una maggior attività vulcanica. Un esempio: le Ande sono una catena ricca di vulcani e quando i ghiacciai, che si stanno già sciogliendo, non ci saranno più l’attività di questi vulcani riprenderà con vigore.


Da dove vengono le risorse 

Il collegamento della ricerca con l’attualità non riguarda però solo il cambiamento climatico. Sternai spiega che molte delle risorse naturali che sfruttiamo oggi si sono formate nel Messiniano, cioè tra i cinque e i sei milioni di anni fa perché le evaporiti prodotte, che sono impermeabili, hanno fatto da tappo e permesso lo svilupparsi degli idrocarburi nel sottosuolo: così è possibile capire meglio come si sono accumulate le risorse che noi usiamo per alimentare le nostre società. Il ragionamento vale anche per le riserve d’acqua: “se sulla crosta terreste – precisa il ricercatore – 1000 metri cubi di ghiaccio si sciolgono, per effetto del calo della pressione 1000 metri d’acqua evaporano nel sottosuolo”. Dalla decompressione che avviene in superfice è possibile calcolare quant’acqua in meno c’è sotto la crosta terrestre e quindi quanto la de-glaciazione attuale ci priverà della nostra risorsa principale. “Un’altra questione interessante – aggiunge – è che non solo i vulcani cambiano il clima con la loro attività ma anche il clima può influenzare il loro comportamento”.


La scienza vincerà 

Premesso che il riscaldamento globale è comunque qualcosa d’inevitabile in questa fase della vita del pianeta, il contributo dell’uomo continua a mostrare i suoi effetti negativi, ed è sconcertante, una volta di più, come il tema sia preda della partigianeria. Secondo Sternai, il dibattito sul clima è influenzato in buona parte da interessi particolari: “conosco ricercatori – sottolinea – che non sostengono la teoria del riscaldamento globale perché lavorano con le industrie degli idrocarburi. Chi volesse informarsi davvero – conclude – troverebbe evidenze tali che non potrebbero essere ignorate. È un atteggiamento che ricorda quello degli antivaccini: sono persone che negano l’evidenza e sostengono cose non vere e pericolosissime”. Tuttavia, nella comunità scientifica c’è ottimismo perché il macro trend va verso una conoscenza scientifica sempre più diffusa: ci sono molte più riviste che in passato ma non si è ancora arrivati al punto in cui tutto può essere trasmesso con chiarezza.