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Nella trappola demografica

Pochi giovani, ancor meno nascite: l’Italia si scopre vulnerabile a un trend demografico che risulta sempre meno sostenibile. Come uscirne? Magari, come suggerisce Alessandro Rosina, adottando una serie di misure che all’estero hanno saputo dare risultati concreti

Gli esperti la chiamano trappola demografica. È la situazione tipica in cui si vengono a trovare quelle popolazioni che presentano per un lungo periodo di tempo un basso livello di natalità. Il concetto può essere espresso anche nei termini matematici di una semplice equazione: meno nascite ieri equivale a meno giovani oggi, meno giovani genitori oggi equivale a meno nascite domani e, di conseguenza, anche a meno giovani dopodomani. E così via, fino a scivolare in quella che Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia presso l’Università Cattolica di Milano, arriva a definire “una spirale che si avvita su sé stessa e che, una volta imboccata, risulta sempre più difficile da abbandonare”. Proprio lo scenario in cui rischia di cadere un’Italia che è ormai da anni (anzi, da decenni) in crisi demografica.
La conferma arriva dai numeri. Nel 2022, stando all’ultima edizione del rapporto annuale Natalità e fecondità della popolazione residente curato dall’Istat, il numero di nascite si è fermato a quota 393mila: è la prima volta dall’unità d’Italia, guerre comprese, che il dato scende sotto la soglia delle 400mila nascite. Il 2022 ha così segnato l’ennesimo record negativo di un paese che fa sempre meno figli. Un primato che sembra tuttavia destinato a durare molto poco, considerando i dati che l’Istituto nazionale di statistica ha pubblicato lo scorso ottobre: nei primi sei mesi del 2023 si sono contate 3.500 culle in meno rispetto all’anno precedente.

Una finestra sempre più stretta

“L’andamento della natalità dipende sostanzialmente da due fattori: il numero di donne in età riproduttiva e il numero medio di figli per donna”, spiega Rosina. L’Italia sembra passarsela male in entrambi i campi. Attualmente, secondo il rapporto I giovani del Mezzogiorno dell’Istat, si contano in Italia circa 10,2 milioni di giovani di età compresa fra 18 e 34 anni, praticamente più di tre milioni in meno (-23,2%) rispetto al 2002. E il numero medio di figli per donna si attesta a 1,24 (addirittura 1,22 se si considerano anche i primi sei mesi del 2023), lontano da una media europea che l’Eurostat fissa a 1,53 e, soprattutto, lontanissimo da quel 2,1 che potrebbe quantomeno garantire il ricambio generazionale ed evitare squilibri demografici insostenibili.
I numeri non lasciano spazio a molti dubbi: l’Italia è vicina a uno scenario da trappola demografica. “La situazione non è ancora del tutto compromessa, però bisogna intervenire subito”, commenta Rosina. “Se aspettiamo ancora qualche anno – prosegue – la struttura demografica sarà così sbilanciata che neppure un vertiginoso aumento del numero medio di figli per donna potrà consentire di invertire la tendenza e non peggiorare troppo l’attuale rapporto generazionale”. E man mano che il tempo passa, la finestra di opportunità si fa sempre più stretta.


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Le ragioni di una crisi

Le cause di un simile scenario sono state ricostruite da Rosina nel volume Storia demografica d’Italia. Crescita, crisi e sfide, scritto insieme a Roberto Impicciatore, professore associato di Demografia presso l’Università di Bologna, e ristampato recentemente per i tipi di Carocci Editore. “Tutto è avvenuto in meno di vent’anni quando, fra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso, l’Italia è passata dai tassi di fecondità più alti d’Europa a quelli più bassi dell’intero pianeta”, illustra Rosina. “L’Italia – prosegue – non è stata in grado di mettere in discussione un modello economico e sociale che aveva funzionato bene negli anni ‘50 e ‘60, nei vent’anni gloriosi del miracolo economico, ma che si è poi rivelato del tutto inadeguato a cogliere le opportunità dei tempi che cambiavano”. Il risultato è un andamento demografico che tutt’oggi, come visto, mostra le sue conseguenze.
Il vero e proprio crollo demografico è avvenuto negli anni ‘80. “Probabilmente il ceto medio che si era venuto a creare durante il miracolo economico – osserva Rosina – ha avuto più timore di perdere la rendita del benessere che aveva conquistato con grande fatica, anziché rimettersi in discussione accettando la sfida di investire su un nuovo modello di sviluppo: rispetto ai processi di cambiamento, l’Italia si è adattata più ad agire in difesa che sbilanciarsi in attacco, rinnovandosi”. Sono venute a mancare politiche attive del lavoro che potessero favorire un incontro più efficiente fra domanda e offerta, nuove politiche abitative in grado di ridurre la dipendenza dei giovani dai propri genitori, investimenti in formazione, ricerca, sviluppo e innovazione capaci di creare opportunità per il capitale umano delle nuove generazioni. “Anche le opportunità lavorative per le donne, che proprio in quel periodo iniziavano a raggiungere titoli di studio anche più elevati di quelli degli uomini, sono state spesso sprecate: non si sono create le condizioni per consentire di avere figli e, allo stesso tempo, di avere un’occupazione stabile”, dice Rosina.

Stessi problemi, risultati diversi

Gli effetti di questo peculiare andamento demografico si sono iniziati a vedere proprio nel mercato del lavoro. “Di demografia si è incominciato a parlare quando le imprese hanno iniziato a far fatica a trovare il personale di cui avevano bisogno: fino a che si poteva contare sui giovani nati negli anni ‘70, e prima ancora sulla generazione del baby boom, il problema di fatto non si poneva”, osserva Rosina.
Adesso che i giovani nati negli anni ‘70 sono adulti sulla cinquantina e i baby boomers sono tutti (o quasi) in pensione, il problema si pone eccome. Ed è diventato urgente porvi rimedio. Magari prendendo spunto da quei paesi europei che, come l’Italia, intorno agli anni ‘80 hanno iniziato a registrare un certo calo della natalità. E che, a differenza dell’Italia, hanno adottato misure che si sono rivelate efficaci nell’invertire la tendenza e nel contribuire alla definizione di una struttura demografica più sostenibile. “Il calo della natalità e l’allungamento della speranza di vita sono fenomeni comuni a tutti i paesi europei”, commenta Rosina. “Anche il numero di figli desiderato dalle giovani generazioni in Italia – prosegue – è analogo a quello che si registra in paesi come Francia, Germania e Svezia: la vera differenza, oltre a un debito pubblico che in Italia ha ormai raggiunto dimensioni enormi, è che all’estero si sono create le condizioni per consentire ai giovani di non rinunciare ad avere figli”.


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Il sostegno alla natalità

La considerazione di Rosina suona quasi come un invito. In fondo, se ci sono riusciti altri paesi, perché l’Italia non può creare le condizioni per invertire, o per lo meno contenere, l’attuale trend demografico? E perché non tentare allora di replicare qui alcune delle misure che all’estero hanno generato risultati così concreti? In materia di servizi all’infanzia, per esempio, in Svezia e Francia più del 50% dei bambini di età compresa tra zero e due anni frequenta l’asilo nido. “In Italia siamo sotto il 30% e gli investimenti del Pnrr in questo ambito si pongono un obiettivo del 33%: troppo poco per pensare di innescare un vero cambiamento”, commenta Rosina. Anche il sostegno economico alle famiglie con figli potrebbe essere più sostanzioso. “L’assegno unico universale, considerando la sola parte di sostegno alla natalità, si riduce ad appena 50 euro mensili: considerando che la spesa media per un figlio, secondo i dati della Banca d’Italia, è di oltre 700 euro al mese, il rischio di impoverimento a seguito della nascita di un figlio è piuttosto alto e 50 euro al mese, più che un aiuto concreto, sembrano un sostegno simbolico”, prosegue Rosina. In Germania, giusto per avere un’idea, il contributo arriva a più di 200 euro mensili.
Molto potrebbe essere fatto anche in materia di conciliazione fra vita e lavoro. Innanzitutto, per le donne potrebbero essere adottate misure come smart working e part-time reversibile. E per gli uomini potrebbe essere invece esteso il congedo di paternità, attualmente fermo ad appena dieci giorni. “In Spagna il congedo parentale obbligatorio è di 16 settimane al 100% dello stipendio”, sottolinea Rosina.


Il vero e proprio crollo demografico è avvenuto negli anni 80: il ceto medio ha avuto paura di perdere il benessere



Lavoro, giovani e immigrazione

Un altro fronte aperto è quello del lavoro e dell’indipendenza economica delle giovani generazioni. “Senza una certa stabilità è difficile pensare di mettere su famiglia”, dice Rosina. Ed è difficile soprattutto per quei circa due milioni di giovani di età compresa fra 15 e 34 anni che, secondo l’Istat, non studiano, non lavorano e non seguono corsi di formazione: in una parola (anzi, in un acronimo) Neet. “Solo la Romania in Europa ci batte in questa classifica: servono politiche attive del lavoro, politiche abitative adeguate ai nuovi bisogni della popolazione e investimenti in formazione, ricerca e innovazione”, sintetizza l’esperto.
Infine, ma non meno importante, il tema dell’immigrazione. “Un flusso costante dall’estero di giovani formati e qualificati può avere un duplice effetto positivo: aumentare la forza lavoro, e dunque le risorse che possono essere destinate al sostentamento del sistema di welfare, e contribuire a incrementare la natalità”, osserva Rosina. In questo caso l’esempio migliore è forse quello della Germania. “Così facendo, e adottando allo stesso tempo efficaci politiche familiari – prosegue – sono riusciti a portare in quindici anni il numero medio di figli per donna da un livello più basso di quello italiano a valori superiori alla media europea”.


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Un percorso credibile nei prossimi anni

Basterà tutto questo a impedire che l’Italia piombi nella trappola demografica? L’impresa, considerando anche i limiti di bilancio di un paese con un debito pubblico che veleggia oltre il 130% del Pil, appare decisamente ardua. “La popolazione italiana è in continua diminuzione dal 2014 e ha ormai perso la capacità endogena di crescere”, dice Rosina. “Riuscire a contenere il calo della natalità – aggiunge – può tuttavia fare la differenza e consentire al paese di definire una struttura demografica più sostenibile”. Nelle proiezioni dell’Istat, soltanto lo scenario più ottimistico, quello che prevede il raggiungimento di una media di 1,8 figli per donna nel giro di 15 anni, potrebbe consentire di stabilizzare al meglio l’assetto generazionale della popolazione. Però, conclude Rosina, “bisogna intervenire subito: i prossimi tre-quattro anni saranno fondamentali per definire e realizzare un percorso credibile di crescita e sviluppo”. In caso contrario, anche lo scenario più ottimistico dell’Istat finirebbe per sfumare. Gli squilibri demografici tenderebbero ad autoalimentarsi. E allora sì che la trappola demografica diventerebbe una scomoda realtà.


La crescita della popolazione mondiale

La popolazione mondiale continua a crescere, ma meno rispetto al passato. “Più della metà dei paesi del mondo ha un tasso di natalità di meno di due figli per donna e due terzi dell’attuale crescita mondiale è crescita inerziale, dettata principalmente dall’ampia fascia di giovani che si registra in Africa”, commenta Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia presso l’Università Cattolica di Milano. Le proiezioni dell’Onu fissano il picco della popolazione mondiale intorno al 2080, quando il pianeta arriverà a contare circa 10,5 miliardi di abitanti, poi il trend dovrebbe stabilizzarsi fino alla fine del secolo. “I paesi che alimentano la crescita della popolazione mondiale stanno diminuendo”, chiosa Rosina.