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Eventi naturali, come difendersi?

Integrare le competenze degli enti di ricerca e creare un servizio geologico a livello europeo. Sono scelte che porterebbero a una migliore gestione di rischi sempre più interconnessi, da quello sismico a quello idrogeologico. Ma, secondo Carlo Doglioni, presidente dell’Ingv, l’Italia ha anche bisogno di una maggiore capacità organizzativa e di una più ampia diffusione della cultura del rischio per poter giungere a un avanzamento collettivo in grado di salvare vite umane, economia e territorio

L’Italia è un paese fragile, sottoposto alla furia di eventi catastrofali come alluvioni e bombe d’acqua, frane, eruzioni vulcaniche e terremoti che sempre più frequentemente mettono a rischio vite umane ed evidenziano la vulnerabilità del nostro patrimonio edilizio, infrastrutturale e produttivo.
Parliamo di una fragilità che interessa il 93,9% dei comuni italiani: 1,3 milioni di abitanti è a rischio frane e 6,8 milioni di abitanti a rischio alluvioni (fonte Ispra).
Quanto ai terremoti, basti pensare che solo negli ultimi 30 anni in Italia e nei Paesi confinanti sono stati registrati 190mila eventi sismici, tra cui vanno ricordati i più catastrofici avvenuti in Abruzzo nel 2009 e in Emilia Romagna nel 2012. Il terremoto nel centro Italia del 2016 ha provocato 299 vittime, 41mila sfollati, danni in 41 comuni e 80mila edifici dichiarati inagibili. Nessuna zona d’Italia può essere considerata esente da rischio sismico: secondo l’Ingv, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, sul totale di 8101 comuni italiani, 542 sono esposti al livello massimo di rischio, 1810 sono a rischio medio, 2258 a rischio moderato e solo per i rimanenti il rischio è considerato minimo.
E ancora: in Italia esistono almeno 10 vulcani attivi, caratterizzati da specificità diverse e controllati attraverso reti di monitoraggio permanenti e attraverso strumentazioni che consentono la misurazione dei parametri geofisici, geochimici e geologici.
Bill McGuire, insegnate di geofisica all’University College di Londra e uno dei principali vulcanologi britannici, nel suo libro Waking The Giant: how a changing climate triggers earthquakes, tsunamis and volcanoes, sostiene che la terra è un gigante che dorme e che per stimoli esterni può muoversi e rigirarsi: una visione che oggi, considerando il moltiplicarsi di eventi estremi che colpiscono il globo terrestre, sembra confermare quanto il cambiamento climatico possa impattare non solo sull’atmosfera e sull’idrosfera, ma anche sulla geosfera sollecitando fenomeni geologici e geomorfologici come terremoti, tsunami, eruzioni vulcaniche e frane.
L’ultimo Report dell’Ipcc (Intergovernmental panel o climate change) evidenzia che la temperatura sulla superficie terrestre è aumentata di 1,1°C nel periodo 2011-2020 rispetto al 1850-1900 e che continuano a verificarsi rapidi cambiamenti nell’atmosfera, negli oceani, nella criosfera e nella biosfera. Il livello del mare in Italia, stando alle ultime previsioni della Nasa, potrebbe aumentare fino a 80 cm.
Tutti numeri che ci parlano di rischi correlati uno all’altro e che richiamano l’urgenza di individuare soluzioni strutturali al grande tema del cambiamento climatico in un Paese come l’Italia, dove le conseguenze di fenomeni estremi vanno ormai quotidianamente sommandosi, provocando perdita di vite umane, distruzione di interi territori, impoverimento sociale ed economico. Uno scenario che non può non fare i conti con l’impatto di eventi naturali su intere aree caratterizzate da elevati livelli di urbanizzazione, densità della popolazione e presenza di un patrimonio artistico e culturale dal valore inestimabile.


Il modello americano, un esempio da seguire

Le ultime stime comunicate da Giovanni Legnini, commissario straordinario per la ricostruzione nominato dopo il sisma del 2016 in Italia centrale, ci parlano di 190 miliardi di euro di danni economici causati dai terremoti dal 1968 a oggi: una cifra che richiama alla necessità di superare la logica della gestione delle emergenze per intervenire sulla base di un piano nazionale che indichi gli strumenti e le priorità di azione.
Ma la correlazione tra i rischi mette in luce una prima priorità di intervento: agire in funzione della prevenzione e della mitigazione del rischio nella gestione dei fenomeni naturali.
“In Italia – afferma Carlo Doglioni, presidente dell’Ingv – servirebbe una maggiore capacità organizzativa che consenta di integrare le competenze degli enti di ricerca, quelle di Ingv, Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) e Ogs (Istituto Nazionale di Oceanografia e di geofisica sperimentale), oggi divise e frammentate, mettendo a fattor comune le evidenze che vengono generate in tutte le categorie di rischi naturali, da quello sismico a quello idrogeologico. In questo modo sarebbe possibile favorire il monitoraggio complessivo del rischio e la possibilità di prendere decisioni pubbliche per prevenire danni gravi, proteggere i cittadini, il territorio e il tessuto economico, salvaguardare le infrastrutture e pianificarne di nuove”.
Il modello a cui ispirarsi, secondo Doglioni, è l’Usgs (United States geological survey), un organismo operativo e di ricerca scientifica del governo degli Stati Uniti che raggruppa in un’unica grande istituzione tutte le categorie di rischi naturali e dispone di dati cartografici, geologici, di scienze naturali e biologici. L’Usgs si suddivide in quattro dipartimenti per lo studio di biologia, geografia, geologia e idrologia e sviluppa programmi per analizzare i cambiamenti nei modelli climatici e nell’utilizzo del territorio, a cui si aggiungono ricerche sulla Terra e sui suoi sistemi principali. Il raggio di azione dell’Usgs si estende al controllo dei campi magnetici e alla produzione di sistemi di allerta per i terremoti e le attività vulcaniche. Il monitoraggio dei rischi ambientali da parte dell’Usgs include infine lo studio degli ecosistemi e delle problematiche legate all’approvvigionamento idrico ed energetico.
Se cercare di arginare la carenza nella mappatura delle carte geologiche del territorio italiano rappresenta oggi un passo fondamentale per il nostro Paese, il vero salto di qualità per generare risposte efficaci alle catastrofi naturali sarebbe “puntare a un servizio geologico europeo, proposta su cui del resto già tutte le autorità concordano”, sottolinea Doglioni.


Gli eventi estremi provocano sfollati che perdono radici e libertà, interi territori vengono distrutti e il tessuto economico disgregato

 
Quando la natura va oltre le nostre conoscenze

Eppure l’Italia sembra continuare a rincorrere le emergenze, sottovalutando il fatto che sono molti i territori che hanno una tradizione sismica, dalla Sicilia alla Campania passando per la Calabria, e poi tutta la dorsale appenninica fino alle Prealpi. “Il problema – avverte Doglioni – va sollecitato anche quando non c’è il terremoto”. L’esemplificazione dell’importanza della questione è contenuta nel motto che Doglioni ha fatto suo: Vale, acronimo di Vita, Abitazioni, Libertà, Economia, che evidenzia quanto valga la pena di studiare la Terra, di conoscere meglio i terremoti e di fare prevenzione.
“Le politiche dei nostri Governi – spiega Doglioni – si sono fino a oggi limitate a occuparsi di come salvare la vita dei concittadini, ma serve fare di più per tutelare anche le abitazioni, un bene che custodisce la cultura e le radici di un cittadino e che può essere demolito da un terremoto. Le conseguenze sono purtroppo bene note: intere comunità sono costrette a sradicarsi dai luoghi in cui vivono e lavorano, i cittadini si ritrovano a vivere da sfollati anche per molti anni perdendo la libertà, intere aree territoriali vengono impoverite e il tessuto economico disgregato”.
Un terremoto come quello avvenuto in Siria e Turchia lo scorso febbraio, di magnitudo 7.7 e 7.5 devasterebbe il nostro Paese. Anche se le energie in gioco tra le placche adriatica, europea e africana sono inferiori a quelle tra la placca araba e quella anatolica, non possiamo sottovalutare il fatto che l’Italia è sottoposta ad alta pericolosità sismica: la statistica e la geologia ci confermano che un terremoto potrà comunque tornare, pur nell’incertezza se ciò potrà accadere tra poco tempo o tra qualche anno.
“Negli ultimi venti anni – spiega Doglioni – abbiamo assistito ad accelerazioni più forti di quelle previste dalle norme tecniche di costruzione antisismica, che producono effetti devastanti nella zona epicentrale, anche per 1000 chilometri quadrati. Se la natura va oltre le nostre conoscenze, con accelerazioni e velocità maggiori di quelle attese, serve migliorare la nostra capacità di difenderci dai terremoti, di progettare in funzione di parametri ipotetici di scuotimento maggiori, e per farlo occorre innanzitutto una maggiore cultura della prevenzione volta a salvaguardare la vita delle persone, le abitazioni e le infrastrutture delle zone colpite”.


L’Usgs negli Usa raggruppa tutte le categorie di rischi naturali e dispone di dati cartografici, geologici, di scienze naturali e biologici

 
Rinnovare la formazione e l’educazione

Per imparare a difenderci meglio, al di là delle norme tecniche di costruzione antisismica e delle detrazioni fiscali sulle ristrutturazioni edilizie, serve iniziare ad avere un rapporto diverso con il nostro pianeta. “Dobbiamo capire come funzionano le cose”, avverte Doglioni. “E per fare questo – aggiunge – servono la ricerca scientifica di base e una maggiore attenzione verso le geoscienze. Ma purtroppo sembra che sia più affascinante guardare le stelle che non studiare quanto succede all’interno della Terra, almeno a giudicare dai miliardi spesi per studiare l’Universo (per esempio, diversi miliardi solo per un telescopio), rispetto alle poche decine di milioni investite per studiare il globo terrestre”. Fondamentale è, secondo Doglioni, costruire una cultura dei rischi naturali, partendo anche dalle scuole, per far comprendere quanto conoscere i rischi possa tradursi in un avanzamento collettivo capace di salvare le nostre vite, l’economia e il tessuto sociale.
Una conoscenza più approfondita del nostro pianeta potrà “contribuire a comprendere quello che sta sotto di noi, e che incide su tutte le nostre attività, fornendoci strumenti per riuscire a difenderci meglio”. Quindi è importante anche rinnovare l’educazione, rafforzandola per renderla permanente e capillare, con l’obiettivo di accrescere la consapevolezza non solo del rischio sismico ma anche degli altri rischi naturali”
Serve anche ricordare che la scienza ha un linguaggio universale fatto di formule, teorie e teoremi che, come le regole della natura, vanno al di là delle bandiere politiche o di confini geografici.
“Affrontare i cambiamenti climatici, difenderci dai terremoti e dagli eventi estremi della natura – conclude Doglioni –, significa partire dalla volontà di formare una classe di scienziati, di cittadini e di dirigenti consapevoli”. E significa anche investire in un sistema sociale e decisionale che sappia comprendere, all’insegna della collaborazione anche a livello europeo, l’importanza della condivisione di un linguaggio universale in grado di aiutarci a prevenire e difenderci dalla complessità e dalla gravità dei rischi naturali.


CLIMA E VULCANI, UNA RELAZIONE SEMPRE PIÙ STRETTA
In Italia esistono almeno 10 vulcani attivi: Campi Flegrei, Ischia, Vesuvio, Vulcano, Lipari, Panarea, Colli Albani, Stromboli, Etna, Pantelleria, Marsili e Ferdinandea. Nel Mar Tirreno e nel Canale di Sicilia si concentrano anche alcuni apparati vulcanici e alcuni vulcani sottomarini come Valivov e Magnaghi, oltre che Palinuro, Glauco, Eolo, Sisifo, Enarete.
Nel nostro paese i sistemi di monitoraggio e le mappe di hazard, vale a dire la capacità di prevedere quando, dove e con che intensità l’evento naturale accadrà, consentono di prevedere e gestire i livelli di allerta, stabiliti integrando i dati di monitoraggio con quelli basati su stime di probabilità per valutare il tipo di eruzione.
Anche nel caso dei vulcani, esiste una correlazione tra cambiamento climatico e ciò che le eruzioni vulcaniche immettono nell’atmosfera (gas, ceneri e metalli) alterando il clima a livello locale, regionale o, a seconda della tipologia di evento, anche a livello globale. Ma l’attività vulcanica influisce sul clima così come il clima può influenzare l’attività vulcanica, secondo quanto stabilito anche da uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Ginevra in collaborazione con l’Università di Orleans e l’Istituto di scienze della terra del Consiglio nazionale delle Ricerche spagnolo a Barcellona.
Le interconnessioni tra gli eventi naturali possono riguardare il riscaldamento globale e il conseguente scioglimento dei ghiacciai, molti dei quali ricoprono i fianchi di vulcani attivi. Non stupisce quindi che la comunità scientifica stia studiando le possibili alterazioni della pressione sulla superficie terrestre e gli effetti sull’attività vulcanica che il contatto tra magma e falde acquifere potrebbe provocare. La scomparsa delle calotte polari, che sorreggono le strutture vulcaniche che si trovano a elevata altitudine, potrebbe inoltre provocare instabilità e smottamenti vulcanici. Uno scenario che, nel complesso, apre nuove prospettive per ulteriori studi interdisciplinari da realizzare grazie alla collaborazione tra vulcanologi, geomorfologi e climatologi.