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Quando il lavoro non soddisfa più

Sono sempre più numerosi i lavoratori che abbandonano il proprio posto senza la certezza di trovare subito un’altra posizione, mossi da molteplici cause che li portano a non essere soddisfatti. È il fenomeno della Great Resignation, che sta mostrando come il concetto di impiego sia mutato nel tempo, soprattutto tra i giovani

Great Resignation, in italiano Grandi dimissioni. Così si chiama il fenomeno che si sta espandendo in tutto l’Occidente, Italia compresa. Sempre più persone stanno lasciando la loro occupazione volontariamente, perché non soddisfatte e in cerca di nuovi stimoli e valori. Dai dati del ministero del Lavoro in Italia nel terzo trimestre 2022 si registrano tre milioni 145mila cessazioni di contratti di lavoro, con un incremento del 7% (207mila unità) nei confronti dello stesso trimestre del 2021. Il termine Great Resignation, coniato nel 2021 da Anthony Klotz, professore presso Ucl School of Management di Londra, etichetta l’esodo dal mondo del lavoro iniziato da qualche anno oltreoceano e diffusosi in maniera più intensa e capillare dopo la pandemia, frutto della cosiddetta pandemic fatigue, la condizione di fatica mentale sperimentata durante i lunghi mesi di lockdown. Con il ritorno alla normalità però, quella tendenza che sembrava un fenomeno transitorio, dovuto a fattori strettamente legati a una situazione emergenziale, si è manifestata come un trend continuativo che sta mutando il modo di intendere il lavoro.

Le grandi dimissioni

Secondo quanto osservato nel IV rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, nei primi nove mesi del 2022 le dimissioni dal lavoro sono state quasi 1,7 milioni, con un balzo del 21,9% rispetto allo stesso periodo del 2021. Ma c’è di più: il dato è ormai superiore del 30,1% a quello dello stesso periodo del 2019, cioè l’ultimo anno pre-Covid. Se si osserva l’evoluzione storica del fenomeno si capisce come non si tratti di un evento isolato, ma di un trend in continua crescita. Dal 2018 al 2022 il numero di persone che ha volontariamente interrotto il proprio percorso lavorativo è cresciuto del 41%, secondo l’Inps e, dato di cruciale importanza, la forza trainante dell’esodo sono i giovani. Da quanto emerge dal rapporto Randstad Workmonitor la percentuale di lavoratori che sta cercando un nuovo impiego nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni sale al 38%, rispetto al 29% degli occupati, e rappresenta una generazione che ha una scala valoriale differente, in cui il lavoro fine a se stesso non è più la massima aspirazione.

Giovanissimi e mobilissimi

La Great Resignation rappresenta anche un cambio di valori generazionale, dai millennial fino alla gen Z, per quanto riguarda la mentalità lavorativa. Secondo la ricerca HR Trends & Salary Survey 2022 di Randstad il 38% dei lavoratori italiani ha dichiarato che sarebbe disposto a lasciare il proprio lavoro se questo gli impedisse di godersi la vita, la percentuale però si alza, superando il 50% tra i lavoratori di età compresa tra i 18 e i 25 anni. Inoltre nel rapporto emerge come nell’ultimo anno siano aumentati di numero i dipendenti che preferiscono essere disoccupati piuttosto che infelici sul posto di lavoro (23%), numeri che raggiungono il 34% nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni e, in particolare, toccano il loro apice tra i millennial (76%). In generale, secondo una ricerca di Workplace Intelligence il 74% dei dipendenti millennial e gen Z è intenzionato a lasciare il posto di lavoro entro la fine dell’anno a causa della mancanza di opportunità di sviluppo delle proprie competenze e, di conseguenza, della propria carriera professionale.



Mercato del lavoro dinamico

Rispetto al passato la tendenza a voler mutare la propria situazione lavorativa è sempre maggiore e contemplata con maggior facilità. In Italia tra le cause di cessazione dei rapporti di lavoro le dimissioni costituiscono, dopo la scadenza dei contratti a termine, la quota più alta. Nel Bel Paese questa visione sempre più soggettiva porta a un dinamismo intenso del mercato del lavoro: il rapporto Censis-Eudamion evidenzia che il 46,7% degli occupati se potesse lascerebbe l’attuale lavoro. Ancora i giovani hanno i numeri più alti: il 50,4% se ne avesse la possibilità muterebbe la sua posizione, lo stesso vale per il 45,8% degli adulti e il 6,3% degli anziani. Un mercato del lavoro diventato dinamico prima per motivi strutturali, come la carenza di garanzie e contratti precari, ora incrocia le volontà di una platea sempre più ampia di lavoratori che desiderano cambiare andando alla ricerca di condizioni migliori, non ricercando il posto fisso, ma quello ideale. La portata del fenomeno della Great Resignation potrebbe cambiare dall’interno il modo di interfacciarsi tra lavoratori e datori di lavoro, dando vita a un cambiamento radicale e trasversale.


Il 74% dei dipendenti millennial e gen Z è intenzionato a lasciare il posto di lavoro entro la fine dell’anno


Le motivazioni del grande esodo

Essendo la Great Resignation un fenomeno complesso le motivazioni che spingono i dipendenti a dimettersi sono molteplici. Tra le ragioni che spingono i dipendenti a lasciare la propria azienda l’aspetto economico gioca certamente un ruolo importante, soprattutto in Italia. Secondo quanto riporta Randstad, il nostro paese è penultimo a livello globale nella classifica dei lavoratori che hanno ricevuto un aumento di stipendio nell’ultimo anno, registrando solamente un 19% a questa voce. La retribuzione non è considerata adeguata alle esigenze per il 44,2% degli occupati, in particolar modo giovani (53%) e chi lavora nelle piccole imprese (60,2%). Inoltre il 65% degli occupati ritiene che nel suo lavoro le opportunità di progressione di carriera siano insufficienti. Secondo Randstad il fenomeno delle dimissioni volontarie di massa è dovuto, in particolare tra i giovani, anche all’incapacità delle aziende di soddisfare pienamente la realizzazione personale. Per il 49% degli intervistati il lavoro non sarebbe realmente in grado di offrire uno scopo e per il 60% la vita privata sarebbe più importante di quella professionale. Sempre più comunemente, poi, il lavoro viene visto in modo strumentale: per il 64,4% degli occupati e, in particolare, il 69,7% dei giovani (Censis) il suo unico scopo è quello di procurare il denaro per vivere e fare altre attività e, se ne avesse la possibilità, il 53% del campione ha dichiarato che sceglierebbe di non lavorare affatto.

Quiet quitting: lavorare il minimo indispensabile

Dai dati analizzati in questo articolo si evince come sia sempre più netto uno scollamento tra i valori, soprattutto dei giovani, e le opportunità lavorative. La disaffezione, l’estraneazione dal lavoro e, anche, la propensione a lasciare è molto forte. Tuttavia in assenza di possibilità o di volontà di abbandonare la posizione lavorativa ha preso piede un’altra pratica che permette di allontanarsi da un posto che non si sente proprio: il quiet quitting. Si tratta di un modo di licenziarsi senza licenziarsi, o meglio di slegare la propria identità dal lavoro, eseguendo in maniera essenziale le proprie mansioni, dedicando il minimo impegno e tempo al lavoro. Niente extra: il lavoro viene svolto solo per quanto stabilito nel contratto. Questo per un rifiuto nel mettere il lavoro al centro della propria vita e per allontanarsi da ansia e stress, spesso i due fattori però possono risultare correlati. Il nocciolo della questione rimane l’insoddisfazione lavorativa, che sta diventando sempre più prevalente: una ricerca di Gallup sottolinea come in Italia solo il 4% dei lavoratori si ritenga coinvolto dal suo lavoro, il dato più basso dei 38 paesi europei presi in considerazione.