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Perù, le radici profonde di una crisi

Il dramma che vive da mesi il paese latinoamericano è solo l’ultima tappa di un percorso che sembra arenarsi di continuo, in cui cambiano i protagonisti ma le difficoltà non fanno che aggravarsi. Questo perché, dalla fine del regime Fujimori a oggi, a livello sociale e di tenuta istituzionale, Lima non è ancora riuscita a raggiungere un livello maturo di democrazia, come spiega Massimo De Giuseppe, professore di storia contemporanea allo Iulm di Milano

Nella stessa giornata in cui in Italia l’attenzione mediatica era focalizzata su uno dei più importanti appuntamenti culturali italiani, il debutto del Boris Gudonov che ha aperto la stagione del Teatro Alla Scala di Milano, dall’altro lato del mondo, in Perù, si vivevano ore drammatiche e paradossali. Il 7 dicembre 2022, il presidente Pedro Castillo tentava un autogolpe, annunciando lo scioglimento del Congresso, con un discorso incerto e avventuriero che ha avuto come principale risultato quello di innescare, nel giro di poche ore, una reazione coordinata di Congresso, potere giudiziario e forze dell’ordine. Castillo è stato destituito e arrestato dalla sua stessa scorta, mentre la guida del paese è passata alla vice presidente, Dina Boluarte. Da quel momento proteste fortissime e violente hanno iniziato a sollevarsi in diverse aree del paese, in particolare nelle regioni meridionali a maggioranza indigena, per chiedere le dimissioni di Boluarte, lo scioglimento del parlamento e le elezioni anticipate. Un dissenso che, nel corso dei mesi, è stato represso con il pugno di ferro dal governo di Lima, e che ha portato a esiti tragici, con la morte di decine di manifestanti.


 

Tre problemi che si intrecciano

Il dramma che si trova a vivere ancora una volta il Perù ha radici profonde ed è il risultato di un ventennio in cui, dalla fine della presidenza di Alberto Fujimori (al potere dal 1990 al 2000) il paese non è mai riuscito ad arrivare a una effettiva maturazione democratica. È ciò che spiega a Società e Rischio il professor Massimo De Giuseppe, ordinario di Storia contemporanea all’università Iulm di Milano, e autore (assieme al professor Gianni La Bella) del volume Storia dell’America Latina contemporanea (ed. il Mulino, Bologna, 2019). Secondo De Giuseppe, “il Perù presenta una serie di problemi strutturali ereditati dal passato che, nella breve presidenza Castillo, sono esplosi in modo particolarmente rilevante”.
Negli ultimi 15-20 anni, si sono intrecciate tre grandi crisi: “una istituzionale, contraddistinta dalla fragilità dell’apparato democratico post-Fujimorista che spesso ha generato dei corto circuiti tra istituzioni: presidenza della Repubblica, Congresso e un apparato giudiziario”. Il secondo elemento è la difficoltà di maturazione del paese dal punto di vista sociale. Le sperequazioni sociali sono molto forti, ma non solo: c’è anche una sorta di incapacità di una visione di insieme, in grado di mettere a frutto le opportunità. De Giuseppe cita come esempio il fenomeno delle rimesse dei peruviani emigrati all’estero, caratteristico degli ultimi 30 anni: “un flusso di denaro che è stato gestito in modo tutto sommato incoerente, in cui le risorse finanziarie arrivate nel paese non hanno avuto un effetto di crescita e sviluppo, non hanno portato a investimenti razionali”. In tempi più recenti si è poi evidenziata una scarsa capacità del welfare, emersa in modo particolarmente drammatico durante la pandemia di Covid-19, laddove il Perù, secondo il professore, “si è distinto in America Latina come uno dei paesi che ha peggio gestito l’emergenza”. In tutto ciò, e veniamo al terzo elemento di crisi, nel paese la polarizzazione della ricchezza ha generato una dinamica che fa sì che il Perù abbia “una piccola élite che, sin dall’epoca post-coloniale, non si è mai ridefinita, dando forma a uno scenario culturale classista che in Perù è particolarmente rilevante rispetto ad altri paesi del continente”.
I problemi contingenti del paese, quindi, vanno di volta in volta a incastonarsi in questi problemi strutturali, “evidenziando una debolezza che, a partire dalla capitale Lima, si amplifica nelle grandi città periferiche come Cuzco, e diventa poi esasperata nelle aree rurali del paese”.


Il Perù si è distinto in America Latina come uno dei paesi che ha peggio gestito il Covid

 
Da Fujimori allo scandalo Odebrecht

Riannodando di fili della storia recente del paese, De Giuseppe ripercorre le fragilità emerse nel 21esimo secoloa partire dal periodo fujimorista. Un decennio contraddistinto da un regime autoritario con un modello economico neoliberista che in qualche modo si ispirava all’esperienza di Augusto Pinochet in Cile, ma con una struttura di potere in cui l’esercito non ha avuto lo stesso ruolo di quello cileno, giacché il Perù non solo è molto diverso (anche molto più incontrollabile rispetto al Cile), ma ha anche dovuto fare i conti con la guerriglia di Sendero Luminoso, in anni segnati da un’escalation di violenza senza freni. “In quella fase – spiega De Giuseppe – di fatto si sono smantellati alcuni elementi che avevano tenuto insieme, seppur con fragilità, l’apparato istituzionale”. Quando poi finisce la stagione fujimorista e alla presidenza arriva, nel 2001, Alejandro Toledo, economista e sociologo al quale spettava il compito di traghettare il paese verso la piena democratizzazione, “si è innescato un processo per cui grandi ondate di entusiasmo popolare per il cambiamento sono state frenate molto rapidamente”. Toledo ha introdotto una serie di riforme sociali ed economiche legate all’impianto del Washington consensus, ma fondamentalmente il meccanismo riformista si è inceppato andandosi a scontrare con i motivi strutturali elencati in precedenza. E da lì è iniziata una fase sempre più complicata. Nel 2006 alla presidenza ritorna Alan Garcia (era già stato presidente dal 1985 al 1990), poi nel 2011 è la volta di Ollanta Umala, “il quale si presenta, un po’ come Castillo, da leader indigenista – commenta il professore – accompagnato da un grande afflato popolare. Ma, dopo alcuni mesi al potere, le sue linee politiche si sono rivelate esattamente le stesse dei suoi predecessori”. L’elezione di Pedro Kuczynski, nel 2016, apre poi un periodo di caos. Sono gli anni dello scandalo Odebrecht, la mega inchiesta sulla corruzione legata al gigante brasiliano delle costruzioni, che ha travolto buona parte della politica sudamericana. Kuczynski viene costretto alle dimissioni da un impeachment, mentre Alan Garcia sceglie addirittura di suicidarsi in modo teatrale, sparandosi un colpo di pistola di fronte alla polizia che lo sta per arrestare.
Il paese entra quindi in una fase in cui i suoi problemi strutturali si incancreniscono e diventano sempre più incontrollabili. L’elezione di Castillo arriva nel gennaio 2021. Originario della Cajamarca (nel nord del paese), insegnante e sindacalista, Castillo vince le elezioni con il partito marxista Perù Libre presentandosi come leader indigenista, campesino. Dice di conoscere le dinamiche sindacali, e si propone come protagonista delle lotte sociali. “Sulla carta – commenta De Giuseppe – un tentativo di rilancio dell’onda che aveva portato all’ascesa di Evo Morales in Bolivia. Di fatto, però, Castillo si dimostra politicamente incapace di tenere assieme la complessità peruviana”. Nei suoi 16 mesi al governo, Castillo cambia 70 ministri e cinque primi ministri, senza riuscire a mettere in atto nessuna delle grandi riforme che aveva promesso al paese. “Si crea una situazione in cui vengono a mancare quegli elementi di maturità istituzionale presenti in altri paesi dell’America Latina, nei quali anche in situazioni critiche, si riesce a mantenere un equilibrio”, commenta il professore. Di fronte al vicolo cieco dello stallo, Castillo ha giocato la carta disperata e insensata dell’autogolpe.





Un paese fortemente diviso

Eppure inizialmente l’elezione stessa di Castillo era stato un segnale incoraggiante della tenuta delle istituzioni, dal momento che la candidata sconfitta, Keiko Fujimori (figlia di Alberto, esponente del partito di estrema destra Fuerza Popular) aveva contestato la vittoria dello sfidante chiedendo l’annullamento di 200mila schede per presunte irregolarità, accusa però dimostratasi infondata. Secondo De Giuseppe, questi alti e bassi sono delle costanti del Perù degli ultimi anni. “Dal 2001 in avanti, si rigenera spesso un meccanismo che sembra far ben sperare, ma che a un certo punto implode. Ogni volta si crea un nuovo cortocircuito non appena si vanno a toccare i veri nodi della situazione. Il Perù – è la fotografia di De Giuseppe – attualmente è un paese molto diviso. C’è una frattura gigantesca tra la sierra, la costa e la selva, che sono le tre anime di questo paese. È una frattura antica, a cui oggi però si aggiungono dinamiche molto specifiche. Perché dentro alla crisi del sistema istituzionale peruviano c’è anche una difficoltà del centro di relazionarsi con le periferie. E c’è anche una frattura tra non indigeni e indigeni, laddove le popolazioni Qechua, Aymara e gli indigeni dell’area amazzonica sono sempre più maltrattati e dimenticati”.

Il confronto con Brasile, Bolivia ed Ecuador

Ma dunque cosa serve al Perù per sbrogliare la matassa? “Il paese – spiega De Giuseppe – avrebbe bisogno di ceti medi che potremmo definire socialmente attivi. Il Perù non ha mai visto l’introduzione di misure di matrice keynesiana o post-keneysiana. Persino il Brasile, un paese con un’esasperata polarizzazione della ricchezza, ha vissuto in alcuni passaggi della sua storia esperimenti in questo senso, a partire dagli anni della presidenza di Getùlio Vargas. Il Perù invece, da questo punto di vista, è rimasto un fanalino di coda nel continente. Anche i tentativi fatti tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio dei ‘70 dalle varie giunte militari di sinistra, che avevano provato a creare, attraverso l’esercito, un ceto medio rurale e urbano, hanno dato esiti fallimentari”. C’è un problema strutturale anche di organizzazioni politiche. Sempre facendo un paragone con il Brasile, un progetto politico come quello di Lula da Silva, che a partire dal 2002 ha innescato profondi cambiamenti nel suo paese, è stato possibile perché alla base ha avuto un organismo ben strutturato, il Partido dos Trabalhadores, che, osserva il professore, “si inserisce in una rete politico-partitica che gli conferisce una certa base e la forza necessaria per dare avvio a delle riforme. Una cosa simile in Perù non è mai avvenuta. Anche presidenti riformisti (almeno sulla carta) non sono mai riusciti ad avviare delle riforme serie. Un ulteriore elemento di riflessione – aggiunge De Giuseppe – riguarda le forme dei movimenti e delle associazioni: paradossalmente, pur in tutto il loro impeto ideologico, i movimenti che supportavano Evo Morales in Bolivia e Rafael Correa in Ecuador erano molto coesi e con una forte capacità di impatto politico, cosa che non hanno i movimenti indigenisti peruviani. In Perù c’è una difficoltà maggiore nel fare massa critica, e anche le forme di mobilitazione sono molto più complesse: questo è uno degli elementi di fragilità di un paese che avrebbe un potenziale molto interessante”.

Un orizzonte incerto

Il compito di governare questa complessità è ora nelle mani di Dina Boluarte, di cui la parte del paese scesa in piazza chiede a gran voce le dimissioni, mentre un altro pezzo di Perù (tra questi ultimi c’è lo scrittore premio Nobel, Mario Vargas Llosa) approva la sua gestione della crisi. Boluarte è un personaggio fondamentalmente sconosciuto, giacché la figura del vice presidente in Perù è piuttosto fragile, “è una sorta di riequilibratore istituzionale, ma non ha un peso politico significativo”, precisa De Giuseppe, che ammette: “Boluarte non mi sembra avere un grande physique du role per affrontare questa grave situazione”. Il paese, secondo il professore, “ha bisogno principalmente di una presa di coscienza civile, di una maturazione politica”. Non può certamente più funzionare l’idea di aspettare l’ennesimo leader carismatico che ciclicamente si propone di sbrogliare in poco tempo i nodi profondi che il paese si porta dietro da decenni. “Il Perù ha bisogno di una maturazione in primis delle sue classi dirigenti, che possono avviare un processo di incorporazione politica e di democratizzazione reale. È un percorso complicato e lungo, non lo vedo come un processo immediato. Credo che come primo step sia ora necessaria una fase di ritorno all’ordine che però poi permetta di avviare una qualche riforma strutturale. Io sono ottimista per natura – conclude De Giuseppe – e spero che prima o poi si riesca a rimettere insieme questo apparato istituzionale e renderlo più funzionale, creando più partecipazione e consapevolezza tra le classi dirigenti”.


IL RUOLO DELLA CHIESA CATTOLICA

La Chiesa cattolica peruviana ha avuto storicamente un ruolo importantissimo in tutto lo scenario latinoamericano, basti pensare al ruolo del peruviano Gustavo Gutierrez, “inventore” di quella Teologia della liberazione che a partire dagli anni ‘70 ha avuto enorme influenza nella Chiesa latinoamericana. “La chiesa peruviana – spiega il professor Massimo De Giuseppe – è stata molto polarizzata, articolata, complessa, divisa. Negli anni ‘70 ha avuto un ruolo con alcune avanguardie molto importanti nell’affermazione della pastorale sociale per i poveri, ma ha avuto quasi più un impatto nelle dinamiche periferiche regionali, dove ha agito con esperienze molto interessanti, che non sulla capacità di giocare un ruolo politico”. In questo c’è una dicotomia mai completamente risolta nelle élite peruviane, che si definiscono cristiane ma che tengono in vita quelle dinamiche di immobilismo che zavorrano il paese. “Nel pontificato di Francesco la chiesa peruviana, dopo anni piuttosto difficili e di stasi in cui si era vissuta una sorta di marginalizzazione delle sue spinte più sociali, sembra aver ritrovato quell’idea di pastorale sociale innovativa”.
La Chiesa peruviana ha ottenuto presso i ceti popolari un grande riconoscimento per il sostegno dato ai lavori delle commissioni della memoria per le violenze commesse negli anni della lotta tra lo Stato e Sendero Luminoso. “Sono state avviate alcune iniziative di negoziazione diplomatica per sostenere un ritorno alla calma. Sicuramente la Chiesa ha il potenziale per mettere in moto un processo di dialogo: non ha forse un potere risolutivo ma è sicuramente un attore importante”, conclude De Giuseppe.