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Il gender gap ci costa 28 trilioni di dollari

A livello globale, le donne generarono il 37% del Pil pur essendo la metà della popolazione. L’esclusione e la precarietà di buona parte dell’universo femminile dal mondo del lavoro sono una perdita per tutti. Per cambiare le cose occorre nuovo welfare, educazione, politiche fiscali e ancora quote rosa

Ventotto trilioni di dollari è una cifra difficile da immaginare. Ma è la ricchezza che il mondo produrrebbe se si chiudesse il gender gap, secondo una recente ricerca di McKinsey sul lavoro femminile, ripresa da Axa Investment Managers. Già, perché solo la metà della popolazione femminile in età lavorativa ha un impiego: “un suicidio economico” lo definiscono gli analisti. 

Su circa cinque miliardi di persone che lavorano nel mondo, le donne rappresentano quasi la metà del totale, ma solo il 50% riesce effettivamente a conquistare un impiego vero e proprio, contro l’80% degli uomini. McKinsey spiega che a livello globale, le donne generarono il 37% del Pil, pur essendo la metà della popolazione.

Com’è facile attendersi, ci sono anche marcate differenze territoriali: in Nordamerica, Oceania, Europa orientale e Cina la quota di Pil femminile rappresenta circa il 40% del totale, mentre scende al 38% in Europa occidentale e precipita al 18% in Medio Oriente, con l’India fanalino di coda (17%). 

Un aumento dei salari per tutti

Colmare il gender gap significherebbe aumentare sensibilmente la ricchezza e il benessere per tutti, non solo per le donne, ha fatto notare l’Fmi, ricordando, per esempio, come in Irlanda la partecipazione femminile al mercato del lavoro sia aumentata del 25% dal 1990, contribuendo alla crescita del Paese, definita “eccezionale”.

Immaginando di poter eliminare magicamente la disparità di genere nel mondo del lavoro, il Pil globale crescerebbe di circa 28 trilioni di dollari, cioè un +26%, cifra che equivale al prodotto interno lordo di Stati Uniti e Cina messi assieme. 

Ma ci sono anche vie di mezzo, compromessi più facili da realizzare. Per esempio, qualora tutte le economie di un continente riuscissero ad allinearsi al Paese dove il gender gap è più ristretto, l’incremento del Pil globale sarebbe comunque di 12 trilioni di dollari (+11%), pari al Pil di Germania, Giappone e Gran Bretagna messe assieme. Fmi sottolinea che un aumento della produttività si tradurrebbe poi in un incremento dei salari per tutti, anche per gli uomini, quindi. 

L’equilibrio di genere garantisce la stabilità

Ma anche la qualità del sistema economico in generale ne gioverebbe. Inutile ricordare che uomini e donne portano nel mondo del lavoro approcci, idee e soluzioni differenti, generando quelle varietà e diversità che aumentano il valore economico globale. 

L’avversione al rischio delle donne, per esempio, garantisce ai consigli d’amministrazione di imprese e banche in cui i due generi sono equilibrati una maggior stabilità finanziaria, più liquidità, minori sofferenze, e in generale una miglior resilienza a stress esterni. Ma siamo molto lontani dall’obiettivo, se pensiamo che nel mondo ci sono ancora 18 Stati in cui il marito può legalmente impedire alla moglie di lavorare; in 104 Paesi alle donne è vietato svolgere alcune professioni; mentre in 59 Stati non esiste alcun tipo di tutela legale contro le molestie sul lavoro. 

Le strategie per la parità di genere

Eppure le strategie per uscire dal pantano (e dal Medioevo) ci sono e sono note da tempo. L’Fmi ha tracciato una precisa roadmap per le economie avanzate: in primis occorre equiparare i congedi di maternità e di paternità; ma anche abbattere il costo degli asili nido, dove un taglio del 50% delle rette aumenterebbe del 10% la partecipazione delle giovani madri al mercato del lavoro. Poi occorre usare la leva fiscale, tagliando le tasse alle donne lavoratrici in famiglie a basso reddito

A livello di educazione e pari opportunità, scuola e università devono porsi il problema di creare una forza lavoro femminile al passo con le richieste delle imprese, in un contesto di formazione continua, come fanno Olanda e Francia, grazie a incentivi fiscali per il lifelong learning. Bene le quote rosa nei board aziendali e naturalmente è indispensabile un welfare in grado di proteggere e riqualificare professionalmente le lavoratrici che spesso hanno impieghi più precari, discontinui e malpagati rispetto a quelli degli uomini.