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Per il 2020 lo stesso Pil del 1998

È il calcolo effettuato dalla Cgia di Mestre che sintetizza in maniera inequivocabile il livello della crisi economica conseguente al Covid-19. Per la ripresa sarà fondamentale mantenere l’occupazione, ma il 2021 si preannuncia come un anno nero

Quanto peserà la crisi economica determinata dalla pandemia di Covid-19? Secondo i numeri forniti dalla Cgia di Mestre, molto più di quanto possiamo pensare ad oggi, anche perché solo dal 2023 si potranno vedere gli effetti di alcune misure, come i finanziamenti del Next Generation EU, che arriveranno a metà 2021, e la riforma fiscale, che però sarà introdotta nel 2022, con effetti in entrambi i casi che inizieranno a intravedersi solo a partire dall’anno successivo.
Intanto, già oggi qualche parametro è utile per capire a che punto è la nostra economia. Si tratta di dati che, fanno notare gli artigiani di Mestre, sono aggiornati a metà ottobre e non tengono conto degli effetti delle misure restrittive dei successivi Dpcm. La Cgia stima per l’anno in corso un Pil finale a -9,7%, quasi un punto inferiore alle previsioni comunicate dal Governo attraverso la Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza di ottobre. Fatti due conti, è come se mediamente ogni italiano quest’anno avesse perso 2.484 euro, e più nello specifico circa 3.267 euro per abitante del Nord-ovest, 3.103 nel Nord-est, 2.587 nel Centro e 1.462 nel Mezzogiorno.
Una simile percentuale di calo nel prodotto interno lordo significa essere tornati ai numeri del 1998, un salto indietro nell’economia a 22 anni fa, per capirci, quando ancora il digitale era vicino alla fantascienza.
Questo confronto diventa ancora più significativo se analizzato per territori: tra le regioni che guidano l’economia italiana la Lombardia e l’Emilia Romagna hanno “perso” vent’anni, Veneto e Lazio ventuno, la Toscana ventidue, il Piemonte venticinque e la Campania è tornata indietro di trentadue anni. Il Sud nel complesso ha raccolto lo stesso Pil del 1989 (31 anni) con la punta negativa della Sicilia che è “tornata” al prodotto interno lordo di 34 anni fa.

La fiducia passa per l’occupazione
Ciò che serve è rilanciare la domanda interna con stimoli forti, capaci di far crescere anche la fiducia e la voglia di spendere: dopo i tristi mesi primaverili, i positivi segnali di ripartenza estiva si sono bloccati a ottobre con l’inizio della seconda ondata, che ha nuovamente messo i freni – per decreto ma anche dal punto di vista psicologico – alla spesa individuale.
Il rischio è quello di una crisi sociale allargata, a cui alla chiusura delle piccole attività familiari si aggiungerà la disoccupazione: il blocco dei licenziamenti ha probabilmente solo rimandato un problema che si manifesterà con maggiore forza l’anno prossimo, anche se nell’anno in corso gli occupati scenderanno già di 500mila unità: ad avere il dato peggiore ancora una volta le regioni del Sud Italia, con un calo dell’occupazione del -2,9%, seguito da Nord-ovest (-1,9%), Nord-est (-1,8%) e Centro (-1,4%).
Ad aggravare la situazione di difficoltà delle imprese, in parte iniziata già prima del Covid-19, la Cgia sottolinea l’impatto della nuova misura introdotta dall’Unione Europea in materia di credito, finalizzata ad evitare gli effetti negativi delle esposizioni scadute. La norma impone dal primo gennaio 2021 agli istituti finanziari di azzerare in tre anni i crediti a rischio non garantiti e in 7-9 anni quelli con garanzie reali. La conseguenza che si teme è che le banche, per propria tutela, eroghino con ancora maggiore cautela i prestiti alle imprese, togliendo di fatto uno strumento essenziale per la ripresa e la crescita.