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Crescono le imprese a rischio usura

La chiusura e le limitazioni imposte dalla pandemia hanno messo in sofferenza molte piccole aziende del commercio e del turismo che si sono trovate in crisi di liquidità. Secondo Confcommercio più di una richiesta di prestito su quattro non è stata autorizzata, creando un bacino di potenziali vittime del racket

Le piccole imprese commerciali faticano in genere ad avere accesso al credito, ma la chiusura protratta per settimane a causa del Covid-19 sta rischiando di rendere più difficile la loro posizione, aumentando la possibilità di diventare preda del mercato dell’usura. L’allarme è lanciato da Confcommercio a commento dei risultati di un’indagine condotta da Swg, tra il 22 e il 30 settembre scorsi, su un campione di 682 esercenti con meno di 9 dipendenti, composto per il 36% da bar-ristoranti, per il 30% da negozi del settore abbigliamento e accessori, per il 25% da farmacie, tabaccherie e altri negozi al dettaglio escluso il settore alimentare, e per il 9% da strutture ricettive e balneari del settore turistico.
Le interviste confermano le difficoltà che le attività commerciali hanno incontrato nei mesi da aprile in poi, tanto che – sommando le risposte “molto” e “abbastanza” - il 37,5% afferma di avere registrato una riduzione del volume degli affari e il 36,9% lamenta mancanza di liquidità e difficoltà di accesso al credito, problematiche molto più rilevanti rispetto alla gestione delle normative sanitarie (13,5%) e dei problemi burocratici (12,1%).
Al di là della perdita di fatturato, il problema delle imprese, in particolare le piccole oggetto della ricerca, è quello di avere disponibilità liquida, non solo per le spese di gestione che comunque persistono anche nella chiusura, ma anche perché la cassa del negozio è diretta fonte di sostentamento per il titolare e la sua famiglia. Non disporre di liquidità significa direttamente non poter proseguire nella propria attività.
In forte aumento le richieste di finanziamento
Secondo un’elaborazione di Confcommercio (dati di Banca d’Italia, Format e Swg) il 2020 ha visto un’impennata delle richieste di prestiti e un proporzionale aumento delle risposte negative a tali richieste. Quest’anno le richieste di prestito da parte di imprese fino a 5 addetti (escluso il settore finanziario) sono state circa 1 milione e 275 mila, superiori al “periodo nero” 2011 – 2014 in cui variavano attorno a 1 milione 200 mila ogni anno: a titolo di confronto, nel 2018 e 2019 i prestiti richiesti sono stati circa 1 milione all’anno. A fronte delle richieste pervenute nel 2020, i prestiti non accordati sono stati circa 290mila, oltre un quarto del totale. Rapportando questo dato al numero di aziende richiedenti, Confcommercio delimita la quota di imprese a potenziale rischio di usura.
E la pressione verso il mercato non ufficiale in questi mesi si è fatta sentire. Pur non essendo un dato perfettamente misurabile, i riscontri ottenuti dal sondaggio di Swg a settembre rilevano che il 13% degli intervistati è venuto a contatto con esperienze dirette (riguardanti se stessi o conoscenti) di esercenti ai quali è stato offerto un prestito al di fuori dei canali ufficiali o la possibilità di vendere l’attività a prezzi molto inferiori a quelli di mercato; mentre il 14% afferma di avere esperienza diretta di imprenditori che si sono volontariamente rivolti per un prestito a canali non ufficiali. Il dato, che solo a fine maggio era al 10%, mostra percentuali più alte – fino al doppio – per le imprese del Sud e per quelle del settore ricettivo.
Anche i riscontri che Confcommercio ha richiesto alle forze di polizia e alle istituzioni - pur in assenza di numeri certi – riportano la preoccupazione per un fenomeno che ha subito un’accelerazione negli ultimi nove mesi, con il valore dei proventi sequestrati al mercato dell’usura più che raddoppiati tra marzo e agosto.