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Accompagnare la trasformazione nel mondo del lavoro

Il dibattito sulla fine del lavoro per l’uomo si ripete ciclicamente. L’Ispi analizza, in un report dedicato, il rischio di disoccupazione tecnologica evidenziando le strade, e le competenze necessarie, per riuscire a garantire un’efficace complementarietà tra robot e lavoratori

Il futuro del lavoro è un tema che crea ansietà: se nel passato ogni generazione poteva aspirare a opportunità di lavoro migliori, oggi avanza lo spettro della disoccupazione tecnologica, l’idea che robot e algoritmi svolgeranno nel futuro le mansioni più complesse sino ad ora prerogativa degli umani creando un esercito di sotto-occupati. L’innovazione tecnologica corre ad una velocità mai vista prima d’ora ed è difficile fare previsioni persino a due anni. Eppure il lavoro non finirà. Se ne parla nel longread Il futuro del lavoro dell’Ispi, a cura di Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt.

Una paura che viene da lontano
Abituati a collegare mentalmente il lavoro con la fabbrica, gli operai o il lavoro manuale, si rischia di avere una visione molto parziale del mercato del lavoro di oggi e quindi di quello futuro. Infatti negli Stati Uniti i lavoratori nell’industria sono in calo dal 1953, ben prima della comparsa dei robot; in Svezia dal 1961; in Giappone dal 1969; in Francia dal 1974 e in Italia dal 1980. Un fenomeno di lungo corso dunque, che ha nella tecnologia solo una delle sue ragioni, insieme alla delocalizzazione della produzione e ai cambiamenti nei processi produttivi che sono sempre più distribuiti globalmente e non racchiusi nei confini degli Stati.

Crescono gli impiegati nel settore dei servizi
Oggi i lavoratori dell’industria (intesa come sola manifattura), che tanto ci fanno temere per la scomparsa del lavoro, sono il 7,9% del totale degli occupati degli Stati Uniti e sono pochi i paesi sviluppati in cui questa percentuale supera il 30%. Parallelamente la quota di lavoratori nei servizi è cresciuta sempre di più, raggiungendo l’80% negli Usa e oltre il 70% nell’Unione Europea. Un processo che coinvolge peraltro anche i paesi del terzo e quarto mondo, in particolare dell’Africa sub-sahariana, che sempre più passano direttamente da una economia agricola a una dei servizi, che già oggi rappresenta il 58% del valore aggiunto.

Automazione del lavoro: scenari apocalittici o moderati?
Nel 2013, due studiosi dell’Università di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, calcolano che il 47% degli occupati americani sarebbe ad alto rischio di automazione come conseguenza dello sviluppo di due insiemi di tecnologie: il machine learning e la mobile robotics. Nelle loro previsioni, si trovano ad alto rischio di automazione non solo gli operai della catena di montaggio, ma anche lavoratori dei servizi. Ma queste stime erano ragionevoli?
L’Ocse nel 2016 propone invece una stima diversa e divisa in due percentuali. Da un lato quella dei lavori che molto probabilmente scompariranno, perché più del 70% delle mansioni potranno essere automatizzate; dall’altro quelli particolarmente a rischio con un range tra il 50 e il 70% di mansioni che potranno essere automatizzate. In media, meno del 10% dei posti di lavoro nei paesi Ocse sarà vittima dell’automazione, mentre poco più del 20% è ad alto rischio. Questo scenario contribuisce a rendere meno preoccupante la situazione, ma allo stesso tempo offre la possibilità di mettere al centro il vero nodo del futuro del lavoro: solo in piccola parte il lavoro si crea e si distrugge, la maggior parte del lavoro si trasforma.

Formazione e riqualificazione
Il “principio di conservazione del lavoro” tuttavia non è totalmente naturale, c’è bisogno che l’uomo lo accompagni. Diventa fondamentale quindi la formazione, dalle competenze all’aggiornamento professionale, insieme al cambiamento e all’innovazione organizzativa all’interno delle imprese, il tutto sostenuto da una continua azione di riforma delle norme e dei mercati del lavoro.
“A fronte dell’introduzione di nuove tecnologie nei processi produttivi, spiega Seghezzi, sarà possibile creare nuovi posti di lavoro o mantenere quelli già presenti solo se i lavoratori avranno le competenze necessarie per governare e lavorare insieme a queste tecnologie. L’obiettivo è quello di portare i lavoratori a svolgere sempre più mansioni non automatizzabili, di tipo cognitivo e non routinario così che possano essere al centro della trasformazione digitale e non vittime”.

Un cambiamento più lento del previsto
Gli esperti segnalano che ci vorrà molto tempo perché le tecnologie di cui tanto si parla abbiano applicazioni concrete in tutti i settori produttivi, sia tecnicamente che, soprattutto, dal punto di vista dei costi. Il grande punto di domanda sul futuro riguarda la possibilità di automatizzare molte attività che oggi facciamo fatica ad immaginare svolte da robot e algoritmi. Potrebbero volerci decenni perché le tecnologie cosiddette “4.0” si diffondano in modo capillare, e questo rallenterebbe di certo il processo di trasformazione del lavoro.
“La strada non sarà così lineare come molti la dipingono”, spiega Seghezzi. “Infatti non basta che una tecnologia esista e che sia implementata affinché questa automaticamente venga adottata dalle imprese. E non è detto che tutte le imprese scelgano di adottarle come strumento di riduzione del lavoro umano. Ci sono infatti, oltre a ragioni di natura puramente economica e numerica (aumento dei profitti, riduzione dei costi), ragioni di convenienza sociale e soprattutto reputazionale che fanno pensare che questo processo non sarà così rapido”.

Smart working e mercati del lavoro transnazionali
Che cosa sta cambiando? Stiamo assistendo ad una delle più grandi rivoluzioni nel nostro modo di lavorare: il declino dell’ora-lavoro come parametro per determinare la retribuzione. Stiamo andando verso un lavoro nel quale l’unità spazio-temporale, che portava i lavoratori a lavorare entro un determinato orario e in un determinato luogo fisico, sarà sempre più ridotta. Non solo nei servizi e nei lavori impiegatizi, dove è più facile immaginare un lavoro ovunque e senza orari fissi, ma anche nella manifattura dove il controllo a distanza dei processi sarà sempre più diffuso. Forme di smart working si diffonderanno quindi in tutti i settori produttivi e sarà sempre meno strana la presenza di lavoratori inseriti negli organici di una azienda basata nel paese X ma che lavorano a distanza nel paese Y, contribuendo così a costruire mercati del lavoro transnazionali.

Il nodo della disuguaglianza salariale

Molti osservatori negli ultimi anni hanno notato un altro fenomeno destinato a continuare e da valutare con attenzione per il forte impatto sociale: la polarizzazione del lavoro. Da una parte ci sono le figure più qualificate, che possiedono un elevato livello di competenze tecniche e trasversali, che dialogano con la tecnologia e la utilizzano sempre di più nel loro lavoro. Dall’altra, c’è la cosiddetta la fascia bassa del mercato che comprende tutte quelle attività che non possono ad oggi essere automatizzate ma che non richiedono elevate competenze tecniche.
I due poli della polarizzazione si distanziano sempre di più e rischiano di trascinarsi dietro dinamiche di disuguaglianza salariale, e quindi socio-economica, che si ripercuotono anche sugli equilibri politici.
“Instabilità temporale e oscillazioni orarie generano l’aumento dei cosiddetti working poors o, come li definisce Eurostat, “in-poverty workers” ossia quei lavoratori che, pur avendo un lavoro appunto, non hanno un salario sufficiente a garantire un tenore di vita al di sopra della soglia di povertà. In Europa questi lavoratori sono il 9,4% del totale con picchi del 17,4% in Romania, del 13,1% in Spagna e del 12,2% in Italia” precisa il ricercatore di IPSI.

Lavoro: quale futuro?
“Occorre innescare un processo di riforme profondo e radicale che parta dal ripensamento dei percorsi e delle istituzioni formative fino al mercato del lavoro, oltre che dei sistemi di welfare e di integrazione e accoglienza. Sono riforme che non possono essere gestite in modo frammentato e che, soprattutto, devono essere allo stesso tempo solide ma flessibili, perché lo scenario tecnologico e internazionale non resterà immobile” conclude Seghezzi. La distanza tra l’istruzione e la realtà del mercato del lavoro oggi non è più sostenibile, perché “rischia di generare schiere di giovani in possesso di competenze inutili”. Ma oltre a questo sarà necessario riformare i sistemi di welfare che ancora oggi si fondano su modelli novecenteschi. Occorrerà mettere in atto politiche sociali (e anche migratorie) in grado di attirare quelle competenze necessarie per il funzionamento dei processi produttivi e che possano, allo stesso tempo, sostenere fiscalmente le spese degli Stati. Il sistema di regole sarà fondamentale in un mercato del lavoro che diventa globale.